[19/01/2011] News

Il cuore energetico della cooperazione/competizione Usa-Cina

LIVORNO. Ieri a Washington ha preso il via il secondo Forum strategico Usa-Cina sulla cooperazione in materia di energia pulita, al quale partecipano rappresentanti dei governi, uomini di affari ed esperti dei due Paesi che stanno discutendo di una serie di temi riguardanti la collaborazione energetica tra le due potenze economiche mondiali che sono anche i due più grandi inquinatori del pianeta.

Secondo John Thornton, presidente della Brookings, uno degli organizzatori del Forum, ha detto che «La cooperazione costruttiva tra la Cina e gli Usa nel settore dell'energia pulita potrebbe servire da modello per le relazioni bilaterali in diversi settori e per altri Paesi». Anche per l'ambasciatore statunitense in Cina, Jon Huntsman «La cooperazione bilaterale stretta nel settore dell'energia pulita sarà favorevole a stabilire la fiducia tra i due Paesi e per le generazioni future».

Probabilmente non basteranno i due giorni del Forum  (comunque preparato da un fitto calendario di incontri riservati e pubblici, a volte trasformatisi in scontri) ed i sui workshop per definire le relazioni sino-americane in campo energetico nei prossimi decenni. La prima sessione del Forum si era tenuta a Pechino nel 2009, ma da allora si può dire che è cambiato il mondo.

E' indubbio che la  cooperazione tra questi due giganti per lo sviluppo dell'energia pulita (che né cinesi né americani chiamano rinnovabile, pensando evidentemente ad una quota di nucleare) potrebbe essere una specie di mega-assicurazione per la pace e per la creazione di posti di lavoro, creando vaste opportunità commerciali per le due potenze in competizione. Huntsman al forum ha riassunto tutto questo dicendo che «Questi sforzi sono anche cruciali per ottenere un avvenire verde per i due Paesi e per il mondo».

Zheng Bijian, presidente dell'Istituto per la strategia dell'innovazione e dello sviluppo della Cina (l'altro organizzatore del Forum) ha sottolineato che «La cooperazione pratica sino-americana nel settore dell'energia pulita potrà certamente allargare ed approfondire la convergenza di interessi. Penso che le discussioni in questo Forum non contribuiranno solo agli sforzi miranti a rilevare le sfide del cambiamento climatico, ma aiuteranno anche a promuovere lo sviluppo low-carbon e la sicurezza energetica dei due Paesi».

Il retroscena di questa cooperazione/competizione obbligata lo spiega Bryan Walsh in un lungo reportage su  Time che parte dai vertici Unfccc di Copenhagen e Cancun e dalle preoccupazioni della delegazione Usa perché «L'ostinazione di Pechino ha ripetutamente bloccato i progressi per un accordo, con i negoziatori cinesi che hanno addirittura snobbato il presidente Barack Obama quando è arrivato per colloqui dell'ultimo minuto. La Cina ha firmato il limitato accordo uscito da  Copenaghen solo con riluttanza e, durante gran parte del 2010, è sembrata stare alla larga da qualsiasi impegno sul clima, anche se il fallimento Usa per l'approvazione di una legge sul clima durante lo stesso periodo non ha aiutato». Secondo il Times la delegazione Usa a Cancun era addirittura pronta ad abbandonare i negoziati Onu sul clima se la Cina non avesse partecipato attivamente. Come sappiamo a Cancun alla fine c'è stato un patto diplomatico che per la prima volta impegna sia i Paesi in via di sviluppo (dei quali la Cina dice di fare ancora parte) che i Paesi sviluppati. A nessuno sfugge che i colloqui a Washington tra il presidente cinese Hu Jintao e quello americano Barack  Obama avranno al centro della matassa dei problemi globali l'energia, motore dell'economia globalizzata e, nelle sue problematiche declinazioni nucleari e petrolifere, anche i bubboni aperti del nucleare nordcoreano e iraniano e dei diritti umani.

Zou Ji, direttore per la Cina del World resources institute sottolinea che «Questa non è una questione solo dei due Paesi. E' una questione che riguarda il mondo intero». Lo sanno bene cinesi ed americani che hanno cominciato a collaborare in campo energetico prima dell'arrivo di Obama e che nel novembre 2009 hanno lanciato insieme il' U.S.-China Clean energy research center, con sedi in entrambi i Paesi e con team di scienziati e ingegneri finanziati con almeno 150 milioni di dollari per i prossimi 5 anni. Le priorità della ricerca riguardano l'efficienza energetica degli edifici, il "carbone pulito" e il carbon capture and storage, vitali per Paesi che dipendono fortemente dal carbone, la loro principale fonte di inquinamento climatico. «Questo non è un gioco a somma zero», avverte però Kate Gordon, vice presidente per la politica energetica del tink-tank Center for american progress.

Ma mentre gli scienziati collaborano le tecnologie pulite sono diventate un elemento di competizione economica che sta complicando i rapporti sino-americani. Non ci sono solo i repubblicani, che dopo aver voluto e preparato l'accordo con Pechino ora lo contestano. Nel 2010 l'United Steelworkers ha chiesto a Obama di avviare una "formal investigation" accusando la Cina di violare gli accordi internazionali sul libero commercio con i suoi incentivi alle tecnologie pulite, che comprendono anche le sovvenzioni governative  per l'esportazione, prestiti a bassi tassi agevolati  e accesso a buon mercato ai terreni per realizzare fabbriche e impianti. Il sindacato Usa dei metalmeccanici teme che il dominio cinese nelle energie rinnovabili possa produrre nuove delocalizzazioni delle produzioni tecnologiche all''estero.

Gli Usa si stanno consultando con Pechino (che non l'ha presa per niente bene) ma la cosa potrebbe arrivare davanti alla World trade organization, minando così la cooperazione su energia e clima, soprattutto con il Congresso in mano ai repubblicani che cercano di sfruttare il sentimento anti-cinese. Elizabeth Wilson, professore di environmental policy and law all'università del Minnesota dice al Times: «Temo che l'opportunismo politico a breve termine possa far deragliare le esigenze a lungo termine per entrambi i Paesi».

Spaventano l'attivismo quasi famelico della Cina, la rapidità con cui sta costruendo la sua industria solare-fotovoltaica per l'esportazione e la crescita interna esponenziale dell'energia eolica, con investimenti nelle tecnologie per l'energia rinnovabile per 50 miliardi di dollari nel 2010 e una potenza installata di energia eolica che ha raggiunto i 40 gigawatt, più di ogni altra nazione del mondo. Ma è difficile per gli Usa accusare la Cina di barare, visto che non riescono ad approvare uno stracco di legge sul clima e l'energia. L'ex presidente dell' U.S.-China Business Council, Robert Kapp, dice al Times: «I cinesi non sono santi, e giocano una partita difficile. Ma ci stanno mettendo i loro soldi e di tasca loro».

L' American business non sembra disposto a farsi sedurre dalle sirene isolazioniste ed eco scettiche dei repubblicani e non condivide le paure dei sindacati: per gli imprenditori la Cina comunista rappresenta una fetta crescente del mercato del clean-tech. La cosa imbarazza invece gli ambientalisti che stanno spingendo per uscire dal petrolio con le energie rinnovabili promettendo nuovi e molti posti di lavoro verdi per gli americani, ma il rischio è che i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche le imprese americane li costruiscano nelle fabbriche di Chongqing, invece che in quelle di Columbus, nell'Ohio, che hanno beneficiato in passato degli incentivi per l'energia ed il clima.

Probabilmente la necessaria ed ineludibile rivoluzione verde permetterà ad Usa e Cina di prendersi grosse fette di mercato senza grandi conflitti, perché, come spiega Kapp, «Il mondo non può permettersi che uno  di questi Paesi resti in disparte. Tocca ora agli Stati Uniti mettersi in gioco».

Torna all'archivio