[12/11/2010] News

Imitare la natura per uno sviluppo davvero sostenibile

ROMA. E' in libreria l'edizione italiana dell'interessantissimo volume di Gunter Pauli "Blue Economy", nuovo rapporto al Club di Roma, del quale avevo parlato in un articolo di questa rubrica qualche mese fa (vedasi i siti www.blueeconomy.de  e www.zeri.org , dove Pauli ha inserito un breve testo di 1.000 parole circa più un video di due minuti per illustrare un'innovazione che segue la biomimetica ogni settimana).

Il volume è infatti dedicato alle straordinarie innovazioni che possiamo introdurre nei processi e nei prodotti industriali imitando la natura. Così scrive Pauli "L'adozione di nuovi punti di vista non è impossibile a patto di essere pronti ad abbandonare le vecchie abitudini per abbracciarne di nuove. Chi ritiene si stia profilando all'orizzonte la nostra occasione d'oro e non vuole lasciarsela sfuggire deve stare attento a quanto andremo a esporre. Le opportunità che abbiamo sotto i nostri occhi possono mutare la realtà, il cambiamento deve avvenire adesso. Ecologia profonda, permacultura e sostenibilità sono concetti che hanno gettato i primi semi del pensiero ambientalista. Tali concetti ci hanno educato a riconoscere il valore dell'utilizzo sostenibile delle materie prime nella costruzione degli edifici e in tutto ciò che produciamo. Anche se si è cominciata a comprendere l'importanza dei processi sostenibili, pochi sanno come renderli realizzabili economicamente. Se si cominciasse a comprendere e a utilizzare l'ingegnosità, l'economia e la semplicità della natura, si potrebbe imitare la funzionalità insita nella logica naturale degli ecosistemi con conseguenti successi impareggiabili rispetto agli attuali settori industriali globalizzati".

Il lavoro di Gunter Pauli scaturisce da un lungo ed affascinante percorso avviato in questi ultimi decenni. Infatti con il maturare della consapevolezza dei danni prodotti dal nostro intervento ai sistemi naturali abbiamo finalmente assistito a importanti e significativi cambiamenti nel modo di pensare al nostro ruolo nei metabolismi della natura, ed all'avvio di significativi percorsi teorici e pratici di mutamento nei modi di produrre e consumare.

Già dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso si è cominciato a ragionare su quanto le nostre attività mobilitano, in maniera eccessiva, stock e flussi di sostanze e materiali. Si è fatta strada quindi la necessità di minimizzare gli impatti sull'ambiente dei nostri processi di produzione, riducendo l'utilizzo degli stock e dei flussi dei sistemi naturali.

Di fatto si è cominciato ad approfondire un vasto campo di analisi e indagini che oggi si ritrovano in discipline di recente formazione , come l'economia ecologica e la stessa scienza della sostenibilità e che hanno iniziato ad occuparsi di temi fondamentali relativi alle relazioni tra i sistemi naturali e i sistemi sociali.

Queste tematiche sono molto vaste ed articolate, toccano senza alcun dubbio ambiti interdisciplinari e possono essere indicate sotto diverse terminologie, come, ad esempio, ecologia industriale, metabolismo industriale, metabolismo sociale, contabilità ambientale, flussi di materia ed energia, Bio-mimicry o bioimitazione o biomimetica, analisi del ciclo di vita, ecoefficienza, ecoefficacia, ecosufficienza, ecc.

Già nel 1972, uno studioso giapponese intitolò un suo rapporto per il Ministero del Commercio Internazionale e dell'Industria (il famoso MITI giapponese) proprio sull'ecologia industriale (vedasi Watanabe C., 1972, Industrial Ecology: introduction of Ecology into Industrial Policy, Ministry of International Trade and Industry -MITI ). Il primo numero della rivista "Journal of Industrial Ecology" è stato pubblicato nel 1997 e l'International Society of Industrial Ecology (ISIE) è nata nel 2001.

La cultura dell'analisi delle relazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali ha condotto a ragionare complessivamente all'intero ciclo di vita dei nostri prodotti industriali (Life-cycle Thinking), cioè al pensare a come un prodotto da noi usato si origina, come viene utilizzato, come viene processato a livello industriale, quanta energia, quanta materia prima, quanto suolo, quanta acqua sono necessari per ottenerlo, se viene riusato o riciclato, quale è la sua fine al termine del suo ciclo di vita.

In una maniera formale possiamo definire l'analisi del ciclo di vita come una raccolta e valutazione di ingressi, uscite e impatti potenziali sui sistemi naturali di un sistema produttivo o di un prodotto, lungo il suo intero ciclo di vita. Si tratta di un procedimento il più possibile oggettivo di valutazione dei carichi energetici e ambientali relativi a un processo o un'attività, effettuato attraverso l'identificazione e la quantificazione dell'energia e dei materiali usati e dei rifiuti rilasciati nell'ambiente.

La valutazione include l'intero ciclo di vita del processo o attività, comprendendo l'estrazione e il trattamento delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione, l'uso, il riuso, il riciclo e lo smaltimento finale. Le linee guida per elaborare un' analisi del ciclo di vita sono state originariamente redatte dalla SETAC (Society of Environmental Toxicology and Chemistry) che coniò il termine LCA, nel congresso SETAC a Smuggler Notch nel Vermont, Stati Uniti, nel 1990 e sono ora disponibili nelle norme ISO (International Standard Organization) della serie 14040. (si vedano gli interessanti volumi di Baldo, Marino e Rossi, 2008, Analisi del ciclo di vita LCA. Gli strumenti per la progettazione sostenibile di materiali, processi e prodotti, Edizioni Ambiente, e di Manzini e Vezzoli, 1998, Lo sviluppo di prodotti sostenibili. I requisiti ambientali dei prodotti industriali, Maggioli Editore).

Il pensare all'intero ciclo dei vita dei prodotti ha contribuito a promuovere significative politiche innovative riguardanti l'impatto dei nostri metabolismi sociali rispetto a quelli naturali. In particolare nell'ambito dell'Unione Europea e delle politiche degli Stati Uniti, ma non solo, si sono diffuse norme e direttive relative all'Environmental Product Declaration (EPD), alla dichiarazione ambientale dei prodotti, alle politiche integrate di prodotto (IPP, Integrated Product Policy), alle forniture "verdi", meno impattanti dal punto di vista ambientale (Green Procurement), all'elaborazioni di metodologie di calcolo delle "impronte" di carbonio e delle "impronte" idriche dei prodotti (Carbon Footprint, Water Footprint), ecc.

Negli ultimi trenta anni, il concetto di ecoefficienza si è sempre di più imposto come un modello importante da seguire per limitare l'input di materie prime ed energia nella produzione di beni e servizi. Il grande lavoro pionieristico svolto da alcune importanti istituzioni scientifiche, come il Wuppertal Institute per il Clima, l'Ambiente e l'Energia voluto da Ernst Ulrich von Weizsacker, il Rocky Mountain Institute, fondato da Amory e Lee Hunter Lovins, il Product Life Institute fondato da Walter Stahel, ed il lavoro di studiosi come Robert Ayres ed altri hanno avviato una vera e propria rivoluzione culturale che ha posto il tema dell'ecoefficienza al centro di politiche di ciclo e di prodotto nonché all'avvio di proposte molto importanti come quelle contenute nel rapporto "Factor 4" e del più recente "Factor 5", entrambi del Club di Roma ed alle elaborazioni del Factor 10 Club che si è poi trasformato nel Factor 10 Institute, voluto dal noto studioso delle analisi dei flussi di materia, Friederich Schmidt-Bleek.

Questi sforzi si sono ulteriormente rafforzati con il primo importantissimo World Resources Forum, tenutosi a Davos in Svizzera nel settembre 2009 di cui abbiamo parlato più volte nelle apgine di questa rubrica ( vedasi il sito www.worldresourcesforum.org, il prossimo Forum si terrà nel 2011). La dichiarazione finale del Forum, che ha visto la partecipazione di tanti illustri studiosi dell'uso delle risorse, è molto chiara: andare avanti con il modello di crescita continua di utilizzo delle risorse della Terra non è possibile, è quindi indispensabile assicurare la stabilità economica alle società umane in un mondo finito, modificando profondamente i nostri sistemi di produzione e consumo. E' perciò necessaria una nuova strategia globale per gestire l'utilizzo delle risorse naturali che procuri un accesso equo a tutti gli esseri umani per il presente e mantenendo le loro disponibilità per le generazioni future.

Il già citato Istituto Wuppertal per il Clima, l'Ambiente e l'Energia ha, da tempo, avviato importanti ricerche sui flussi di materia e sui cosiddetti "Ecological Rucksacks" (gli "zaini ecologici" che ogni nostro prodotto si porta con sè rispetto alla materia mobilitata nell'arco della sua produzione, ma non incorporata nel prodotto stesso).

Il lavoro del Wuppertal ha condotto, agli inizi degli anni Novanta proprio nel periodo del grande Earth Summit tenutosi nel 1992 a Rio de Janeiro (la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo), all'elaborazione di un concetto molto importante, quello dell'Environmental Space (spazio ambientale), originariamente proposto dall'economista olandese Hans Opschoor, pubblicando diversi rapporti di approfondimento in merito.

Lo spazio ambientale viene definito come il quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, di acqua, di legname e di capacità di assorbire inquinamento che può essere utilizzato a livello mondiale o regionale a livello pro capite, senza determinare danni ambientali, senza mettere a rischio le generazioni future, senza ledere il diritto di tutti di accedere alle risorse e ad una buona qualità della vita.

La teoria dello spazio ambientale si basa su di una valutazione quantitativa e qualitativa dell'uso delle risorse a livello nazionale, comparando i risultati con una "quantità equa" calcolata a livello mondiale e regionale. Da questa valutazione deriva l'elaborazione di politiche adeguate ad assicurare lo sviluppo sostenibile purchè basato su di un equa condivisione.

I diversi studi sin qui realizzati, hanno anche posto bene, all'attenzione di tutti, la necessità che le politiche di sostenibilità vengano basate su due grandi ambiti complementari e inscindibili e cioè quello mirato all'efficienza. Che significa ottenere gli stessi beni e servizi con un minor impiego di energia e materiali (e ci serve a guadagnare tempo ma non certo a risolvere i problemi, considerato l'incremento della popolazione e l'incremento dei consumi e delle pressioni sui sistemi naturali) e quello mirato alla sufficienza, che significa ottenere benessere riducendo i livelli di consumo e migliorandoli qualitativamente (ed è la strada obbligata per l'immediato futuro, soprattutto per quella quota di umanità che oggi si trova a livelli di consumo troppo elevati).

I principali criteri per una corretta gestione delle relazioni tra i metabolismi dei sistemi naturali e quelli dei sistemi sociali riguardano quindi la minimizzazione dell'input dell'utilizzo di materia ed energia, l'ottimizzazione della vita dei prodotti attraverso la loro durata, la loro possibilità di riuso e la loro possibilità di riciclo.

Sappiamo quindi che l'applicazione concreta delle politiche di sostenibilità dovrà rispondere congiuntamente a criteri di efficienza, efficacia e sufficienza. Si tratta di agire con un mix di interventi ed azioni.

La sufficienza costituisce un elemento fondamentale di questo processo. Non possiamo pensare che possa proseguire all'infinito il meccanismo della crescita continua e non possiamo pensare che i nostri sistemi sociali possano mantenere o, addirittura incrementare, la situazione di spaventosa ingiustizia sociale planetaria attuale.

Con significativi contributi successivi si è così passati dal concetto di ecoefficienza a quello di eco efficacia, ben sintetizzato da studiosi quali William McDonough e Michael Braungart.
Nel loro noto volume "Dalla culla alla culla" (2003, Blu Edizioni), diventato una sorta di manifesto dell'ecoefficacia, scrivono : "Considerate questo: le formiche del Pianeta, nell'insieme, hanno una biomassa maggiore di quella degli esseri umani. Sono state incredibilmente industriose per milioni di anni, tuttavia la loro produttività nutre le piante, gli animali e il suolo. L'industria umana ha funzionato a pieno regime per poco più di un secolo e in questo pur breve lasso di tempo ha rovinato praticamente tutti gli ecosistemi della Terra. Non è la natura che ha un problema di progettazione. Siamo noi."

Poi scrivono ancora :" Se gli esseri umani desiderano conservare l' attuale stato di benessere, dovranno imparare a imitare il sistema di flussi di nutrienti e il metabolismo altamente efficace della natura, "dalla culla alla culla", in cui il concetto stesso di rifiuto non esiste. Eliminare il concetto di rifiuto significa progettare tutto -prodotti, imballaggi e sistemi - fin dall'inizio in base al principio che il rifiuto non esiste. Significa che saranno le preziose sostanze nutritive contenute nei materiali a modellare il progetto e a definirlo, che la sua forma sarà determinata dall'evoluzione, non solo dalla funzione. Siamo convinti che questa sia una prospettiva decisamente più valida rispetto a quella odierna [...] Ci sono due distinti metabolismi sul nostro Pianeta. Il primo è il metabolismo biologico o della biosfera, cioè i cicli della natura. Il secondo è il metabolismo tecnico o della tecnosfera, cioè i cicli dell'industria che comprendono anche il prelievo di materiali tecnici da luoghi naturali. Se progettati correttamente, tutti i prodotti e i materiali dell'industria alimenteranno senza rischi entrambi i metabolismi".

Questa è la nostra sfida per l'immediato futuro. Dobbiamo ispirarci alla natura e imitarla il più possibile. E questa sfida diventa ancora più significativa proprio nel 2010 che le Nazioni Unite hanno proclamato Anno Internazionale per la Biodiversità.

Il libro di Gunter Pauli "Blue Economy" costituisce un significativo ed importante contributo per dimostrare la concreta possibilità che abbiamo già oggi, di attivare percorsi di produzione molto diversi da quelli sin qui perseguiti.
Avviare questa strada dipende solo da noi.

 

 

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