[20/10/2010] News

L'economia ecologica è già tra noi, perché c'è sempre stata

LIVORNO. Essendo per definizione l'economia «l'utilizzo di risorse scarse per soddisfare al meglio bisogni individuali e collettivi contenendo la spesa» è - come diciamo da sempre - ecologica di per sé. L'aggettivo era (ed è ancora) dunque tautologico e utile sostanzialmente al solo fine pedagogico e culturale di riportare l'economia appunto con i piedi per terra. Con questo si può affermare che sia l'economia (ecologica) la panacea di tutti i mali? No. E' un'utopia, men che meno. E' più meramente un dato di fatto.

Il problema della riconversione "ecologica del sistema produttivo e del modello di consumo dominanti" di cui si sta dibattendo sul Manifesto a colpi di interpretazioni da parte di Asor Rosa e Guido Viale, non ce ne vogliano i due molto più esperti e preparati interlocutori di chi scrive, appare così una discussione persino superata. Dal momento in cui il presidente degli Usa Barack Obama ha vinto le elezioni con un programma che punta a un nuovo modello di sviluppo fondato sulla green economy, siamo già entrati nell'era dopo Cristo, come direbbe Marchionne. Se si concordasse almeno su questo si potrebbe allora confrontarsi sui problemi reali, ovvero su come uscire dalla crisi riducendo a livello globale e ai fini della ripresa stessa gli impatti ambientali e sociali di una economia - eccessivamente finanziarizzata - e senza regole.

L'esempio di Guido Viale del prodotto auto è effettivamente paradigmatico di quello che stiamo dicendo, in quanto «è inquinante, sia nell'utilizzo (contribuisce ad almeno il 14% delle emissioni climalteranti), sia nella produzione (dall'estrazione, trasporto e lavorazione di materie prime e risorse energetiche alla produzione e al montaggio di componenti: un impatto almeno equivalente), sia nell'infrastrutturazione (strade, viadotti, gallerie, svincoli, parcheggi, ma soprattutto assetti urbani impraticabili senza automobile: insieme si arriva vicino al 50% delle emissioni)».

Inoltre «la capacità produttiva del settore è e resterà sovradimensionata: in Occidente e in Giappone la cosa è palese; nei paesi emergenti lo diventerà presto: i loro programmi di sviluppo del comparto e di motorizzazione della popolazione sono impraticabili. Infine, in questa industria la concorrenza è spietata: impegna non solo le imprese, ma anche gli Stati e i sindacati e, attraverso questi, i lavoratori; chiamati a schierarsi come soldati in difesa della propria impresa, in una guerra contro altre imprese, altri Stati, altri lavoratori. In questa competizione i contendenti sono destinati a cadere uno a uno. Per primi i più deboli, e la Fiat tra questi: non prima però di aver svenduto - se si segue il percorso proposto, volgarmente chiamato Bau (business as usual) - diritti, livelli salariali, salute, vita e famiglia. E portando allo sfacelo quanto resta della grande industria italiana».

Ma le stesse cose si possono dire di altri settori dell'economia, visto che ogni produzione porta con sé consumo di materia, consumo di energia e scarti. Il solo mangiare o bere, con funzioni intestinali annesse, è economia ecologica. E se si analizza cosa mangiamo - partendo da dove arrivano le materie prime e chi le trasforma e poi le distribuisce - arriviamo a un altro dato che dovrebbe essere acquisito: siamo tutti parte del metabolismo economico del pianeta.

E questa è la prova provata di un'altra delle spine del dibattito italiano sul nuovo modello di sviluppo, ovvero la conferma - certificata oggi pensiamo dolorosamente da Vincenzo Visco - che anche "le ricette della sinistra sono scadute da un secolo". Dice infatti l'ex ministro delle finanze sull'Unità che «Le politiche delle sinistre negli anni Novanta erano basate sull'ipotesi che la globalizzazione fosse un processo vantaggioso. Purtroppo le cose sono andate diversamente: l'integrazione politica dell'Europa si è arrestata per l'opposizione di Blair e Aznar, e per il nazionalismo dei Paesi ex-socialisti, ammessi con troppa rapidità nell'Unione. La gestione economica di Bush ha accentuato la crescita di enormi interessi finanziari che hanno condizionato la politica degli Stati Uniti all'interno e all'estero prima di sfociare nella catastrofe del 2007-2008. Ma l'incapacità delle sinistre di cogliere per tempo la direzione effettiva dei processi e i rischi connessi è stata evidente, e in qualche modo persiste tuttora».

Siamo dunque così messi. Da una parte la globalizzazione ha spazzato via il mondo come ce lo immaginavamo a sinistra (almeno una parte importante di essa) e la crisi ha disintegrato anche il modello spinto dalla destra e negli ultimi anni assecondato anche dai progressisti. Purtroppo lo tsunami si è portato via anche chi qualcosa aveva intuito e oggi siamo all'anno zero.

Quello che nessuno dice, infatti, è che c'era una sinistra minoritaria "radicale, pacifista e ambientalista", incarnata nei libri di Naomi Klein che diceva che un'altra globalizzazione (e un altro mondo) erano possibili e che la sinistra ufficiale e storica ha accusato di radicalismo e "comunismo", non capendo che lì c'erano gli elementi per la critica al capitalismo globalizzato dell'iperliberismo e per una nuova socialdemocrazia che globalizzasse anche i diritti e la difesa dell'ambiente e delle sue risorse. Il mancato incontro tra queste due "sinistre" alla fine è costato caro ad una sinistra "storica" che si è spostata al centro e che si è schiacciata sulla "buona globalizzazione" per la paura di criticarne gli aspetti disumani e reazionari che si stanno scaricando sui lavoratori e l'ambiente.

E' così che si può giustificare e capire il fenomeno Grillo che in gran parte si fonda sui "no" dei comitati che sono - ce lo insegna l'omonima fase dei bambini - il primo grado di affermazione del sé. Sempre sull'Unità segnaliamo quanto scrive Gianrico Carofoglio (anticipazione del suo ultimo saggio) proprio sul tema: «Mi ribello quindi siamo: dire ‘No' è una via per la bellezza». Ma è ovvio che questo al massimo può essere un punto di partenza. Da qui per Viale si dovrebbe poi giungere a quello che lui chiama «il principio guida della riconversione» che «dovrà essere la "riterritorializzazione" di produzioni e mercati attraverso una loro sempre più stretta prossimità: in agricoltura, nella generazione energetica, nel recupero di scarti e rifiuti, nel riassetto degli edifici e del territorio, nella formazione permanente. Un sistema in cui a circolare per il mondo siano soprattutto informazioni, saperi e culture - i bit - e sempre meno, anche per via dei costi e degli impatti del trasporto, risorse e beni fisici: gli atomi. È questa l'unica vera alternativa alle "guerre commerciali"; dal mero protezionismo alla rincorsa delle valute, o alla gara a chi "esporta" di più. Ed è anche la risposta alla teoria dei «vasi comunicanti» di Scalfari ricordata da Asor Rosa. È giusto che le differenze tra salari, diritti e livelli di vita dei paesi industrializzati e dei paesi emergenti si vadano attenuando, come di fatto già avviene. Ma per rendere il processo graduale e meno traumatico per tutti occorre guidare ogni territorio - che è cosa differente da "ogni Stato" - verso la sicurezza alimentare, l'autosufficienza energetica, il rispetto dell'ambiente, la promozione sociale e culturale dei propri abitanti».

Un punto di vista non lontano, a ben guardare, anche da quello di Visco « È necessario un forte impegno di studio ed elaborazione, senza nostalgia delle ricette passate, ma guardando avanti, cercando di dare un contributo al dibattito sugli assetti economici internazionali per facilitare una sua evoluzione positiva. È giusto rimettere al centro la questione del lavoro, e dell'occupazione. Al tempo stesso bisogna anche saper parlare con la gente non solo per capirne i bisogni reali, ma anche per evitare una ulteriore regressione nella paura e nella chiusura. Le forze disponibili per questo lavoro ci sono: sta a noi attivarle».

Noi restiamo convinti che - allo stato attuale delle cose - di fronte alla globalizzazione dei mercati e alla loro finanziarizzazione fuori controllo, prima di tutto serva almeno un consiglio di sicurezza dell'Onu sull'economia come proposto ai tempi da Valery Giscard e poi dalla cancelliera Angela Merkel capace di mettere il freno a questa deriva e il "passaporto" agli hedge fund voluto dall'Ue per frenare gli speculatori è già un buon segnale. Come lo è il fatto che il gestore di indici di borsa Ftse (Borsa di Londra e Financial Times) e l'agenzia di rating Ecpi, specializzata negli indici di sostenibilità, hanno messo a punto gli indici Ftse Ecpi Italia Sri Benchmark ed Italia Sri Leaders, che costituiscono la prima serie di indici di sostenibilità - vengono calcolati in tempo reale con aggiornamento ogni 15 secondi e valutano le società in base a fattori di rischio non finanziari quali appunto anche quelli ambientali - per il mercato italiano.

Segnali appunto, che vanno saputi cogliere. Pur apprezzando quando dice il filosofo Remo Bodei su Repubblica in merito alla politica della fantasia, chi scrive sostiene che la speranza che «almeno in politica, l'immaginazione creativa di alternative possa illuminare lo sguardo ai diritti della realtà effettuale e che il principio di irrealtà fecondi senza ucciderlo il principio di realtà» è, alla luce di quanto detto, un problema superabile, per non dire già superato. L'alternativa in sostanza già c'è e c'è persino chi la pratica, manca una visione collettiva e manca chi sappia cogliere questi cambiamenti nella loro complessità e potenza. L'economia ecologica è già tra noi, perché c'è sempre stata.

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