[13/10/2010] News

Da Pechino a Tianjin: quello che (ancora) nessuno osa dire

PECHINO (Cina). Il 4 ottobre scorso Pechino, tappa quasi obbligata del cammino verso Tianjin e verso la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, aveva accolto gli oltre tremila delegati ed inviati di 180 paesi con una limpida e piacevole giornata di sole.

La stessa Pechino ha salutato mestamente i suoi ospiti con una delle giornate peggiori, in termini di inquinamento atmosferico, registrate negli ultimi mesi: sotto un cielo grigio-ocra e immersi in una fitta nebbia i delegati si sono affrettati verso l'aeroporto internazionale, quasi in fuga e forse consapevoli di ciò che attorno a loro stava avvenendo. Quel giorno, sabato 9 Ottobre, la concentrazione di polveri sottili nella capitale cinese superava i 300 milligrammi per metro cubo, un valore sei volte superiore a quello consentito dalla normativa europea.

La parabola meteorologica di Pechino non può essere presa come allegoria per ciò che è avvenuto a Tianjin durante i sei giorni di conferenza. D'altra parte la stessa appare come uno dei tanti gravi problemi legati anche alle emissioni di gas serra, problemi che il mondo riunito attorno a un tavolo ha dimostrato ancora una volta di non saper affrontare.

Al termine della conferenza molte dichiarazioni ufficiali, sopratutto da parte dei rappresentati delle Nazioni Unite, hanno registrato cauta fiducia ed ottimismo. Cristiana Figueres in particolare, segretario esecutivo della United Nation Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), ha sottolineato più volte come, su argomenti rilevanti e non risolti a Copenhagen, i paesi di tutto il mondo siano oramai vicini ad un accordo. La nascita del 'Climate Fund', un fondo unico in cui far affluire i contributi pubblici delle nazioni più sviluppare per sostenere le attività di riduzione delle emissioni e di adattamento nei paesi in via di sviluppo, viene data ormai per certa. Anche i delicati negoziati relativi alle regole di finanziamento e amministrazione del fondo hanno registrato significativi passi in avanti. Simili convergenze paiono essere state raggiunte nel campo del trasferimento tecnologico, mentre l'avvio del REDD+, l'ambizioso programma voluto dalle Nazioni Unite in materia di gestione delle risorse forestali mondiali sembra oramai garantito.

Si tratta certamente di risultati importanti, eppure, i passi avanti fatti nella perfetta cornice organizzativa offerta dai padroni di casa, sembrano quasi servire a nascondere il vero nodo irrisolto dei negoziati: il futuro del Protocollo di Kyoto. Tredici anni dopo lo storico accordo, l'unica via percorribile per affrontare la questione del cambiamento climatico, e cioè la riduzione delle emissioni globali di gas serra attraverso accordi vincolanti per i paesi, pare essere seriamente rimessa in discussione.

A Tianjin, come già a Copenhagen, è andata in scena l'irrisolta contrapposizione tra due 'mondi', quello talmente sviluppato da essere oramai in fase di decadimento e quello che non riesce a comprendere il concetto di 'vincoli' al suo impetuoso recente sviluppo. L'occidente ha senza dubbio sulle spalle le maggiori responsabilità per l'attuale stato del mondo in materia di emissioni, ma allo stesso tempo sta vivendo la più acuta crisi economica e sociale degli ultimi sessanta anni. Il resto del mondo ha una responsabilità 'storica' quasi nulla se paragonata a quella dei paesi sviluppati, eppure l'impetuosa crescita economica di molti paesi in via di sviluppo porta e porterà con sé impatti climatici ed ambientali drammaticamente crescenti.

Da un lato quindi un ampio blocco di paesi in via di sviluppo accusa i paesi più sviluppati di non volere prendere misure di riduzione obbligatoria delle emissioni adeguate alle loro responsabilità storiche, venendo così meno al principio di responsabilità comuni ma differenziate sancito nel Protocollo di Kyoto. Dall'altra i paesi più sviluppati sostengono l'insensatezza di un'azione 'unilaterale', che nel suo complesso non porterebbe ad una riduzione delle emissioni globali di gas serra.

Da questo quadro scaturisce un imbarazzante scambio di accuse tra i due blocchi. Da una parte i paesi in via di sviluppo puntano il dito verso l'inaffidabilità dei paesi più sviluppati, incapaci di mantenere gli impegni vincolanti del Protocollo. Durante le sessioni aperte di Tianjin i delegati di diversi paesi del 'blocco sud' hanno più volte citato l'articolo 3.9 dello stesso Protocollo, che fa riferimento agli obblighi dei paesi Annex I, (i paesi più sviluppati), per ciò che concerne le fasi successive alla scadenza della prima fase del Protocollo. Il 'blocco nord' ha invece insistito sullo scarso valore degli impegni volontari proposti da molti paesi emergenti, sottolineando come con tutta probabilità la realizzazione di tali impegni porterebbe comunque ad un aumento, in termini assoluti, delle emissioni da parte dei paesi in via di sviluppo.

Le laceranti discussioni su aspetti procedurali nascondono divergenze ben più profonde, dove i timori legati alla crisi economica da un lato e la rivendicazione al diritto alla crescita dall'altro paiono rendere i solchi tra le due posizioni pressoché incolmabili. Cina e Stati Uniti sono senz'altro gli attori più importanti di questo intricato gioco internazionale. Eppure sarebbe un errore limitare la questione ad una 'lotta' tra le due potenze di oggi: i due paesi rappresentano perfettamente gli estremi di una contrapposizione che coinvolge quasi tutte le nazioni del globo.

Tentare di offrire un giudizio di valore in merito alle contrapposizioni e differenze descritte fino ad ora sarebbe fuori luogo e senz'altro richiederebbe ben più dettagliate analisi. È possibile invece soffermarsi sul rischio maggiore derivante da tali contrapposizioni. Se ormai tutte le parti coinvolte e gli analisti danno per acclarato che Cancun non porterà ad un accordo in materia della riduzione di emissioni nel periodo successivo alla fase uno del Protocollo di Kyoto, gli occhi sono già rivolti all'ultima occasione per garantire continuità al Protocollo stesso: i negoziati di Cape Town previsti per la fine del 2011.

Un solo anno resta quindi per trovare un accordo equo e condiviso, un anno costellato di incertezze economiche (la crisi da cui i paesi occidentali non sembrano ancora essere in grado di uscire), ma sopratutto politiche (le elezioni di medio termine nel paese che maggiormente dovrebbe contribuire alla riduzione di emissioni e che a tutt'oggi resta l'unica nazione occidentale a non aver ratificato il Protocollo di Kyoto).

Il rischio che non si arrivi ad un accordo nemmeno per la fine del 2011 sta diventando una concreta eventualità. Le (in)immaginabili conseguenze sarebbero pesantissime per il futuro della lotta ai gas serra e al cambiamento climatico: i tanti compromessi già (quasi) raggiunti sono dei complementi di una ossatura che da sempre si fonda sull'unico strumento legalmente vincolante per l'abbattimento dei gas serra. L'approvazione di tali compromessi in mancanza di una seconda ratifica del Protocollo di Kyoto trasformerebbe l'UNFCCC nell'ennesima agenzia delle Nazioni Unite che limita le sue attività alla gestione di risorse pubbliche internazionali per la realizzazione di progetti di 'aiuto' ai paesi in via di sviluppo.

All'esplicita domanda sui possibili effetti di una approvazione degli accordi complementari in assenza di una nuova ratifica del Protocollo il professor Benito Muller, direttore del settore energia e ambiente dell'Oxford Institute for Energy Studies, uno dei massimi esperti mondiali in materia di politiche per il cambiamento climatico, ha risposto di non voler ancora pensarci, poiché il semplice ipotizzare una simile eventualità renderebbe la stessa eventualità sciaguratamente possibile. Il destino del Protocollo di Kyoto e degli sforzi per affrontare seriamente il cambiamento climatico della terra sta proprio in quella parola: 'ancora'.

 

Torna all'archivio