[05/10/2010] News

Pił socialwashing per tutti?

LIVORNO. Qualche anno fa salutammo con soddisfazione le prime iniziative di riconversione ecologica attuate dalle maggiori multinazionali del mondo, che anticiparono il fenomeno della green economy e che segnarono la constatazione di una visione assai più oculata del futuro da parte delle imprese, rispetto ai governi nazionali, allora come oggi lontanissimi da costituire una governance globale in grado di indirizzare l'economia verso una direzione sostenibile.

Le multinazionali semplicemente continuarono a fare quello che hanno sempre fatto, sfruttando tutte le miriadi di possibilità offerte dal cosiddetto greenwashing: per salvaguardare i loro business e i loro profitti avevano capito che era opportuno cominciare a piccoli passi a dotarsi di regole (autoprodotte e quindi più tollerabili e metabolizzabili)  per non segare il ramo sul quale erano seduti quando un giorno per ragioni di forza maggiore sarebbe state invece costrette ad accettare regole imposte dall'alto.

L'alto in questo caso è stata la ribellione di un modello economico impostato su una crescita senza se e senza ma, che è imploso su sé stesso a seguito delle gravi crisi che hanno colpito prima il pianeta, poi l'economia di carta e infine quella reale.

Oggi un fatto analogo sta forse accadendo proprio in quella finanziarizzazione che rappresenta la gamba malata che sta incancrenendo tutta l'economia reale:  una recente ricerca di Argan Capital  fa emergere una crescente attenzione del private equity verso i temi sociali, con particolare riferimento alle potenzialità del reporting sociale, strumento che permette agli operatori di raccogliere la fiducia e il consenso degli stakeholders.

Le imprese si avvantaggiano così come avvenuto sul fronte della riduzione delle emissioni inquinanti, perché secondo il Global reporting iniziative, organizzazione mondiale per gli standard di rendicontazione, entro il 2015 sarà obbligatorio comunicare in maniera omogenea le performance ambientali, sociali e di governance, in attesa che dal 2020 sia invece obbligatorio un vero e proprio  report integrato.

Siamo ovviamente nel campo di quello che potremmo definire socialwashing, stretto parente di quel greenwashing che comunque ci siamo sempre sforzati di leggere in modo positivo, cioè come quello di una tendenza in atto a guidare le nuove tendenze del mercato, a prescindere dall'obiettivo finale, che essendo in presenza di imprese non può essere che quello di guadagnare di più/fare più profitti.

Lo stesso concetto, forse in modo più diplomatico, lo riferisce oggi sul Sole 24 Ore il presidente della Bocconi, Mario Monti, sostenendo che «la crisi ha messo in discussione, soprattutto in Europa, l'economia di mercato. Tutto ciò che può accrescere l'accettabilità dell'economia di mercato, come la responsabilità sociale delle imprese, giova anche alla costruzione dell'Europa». 

Una delle idee di partenza sulla quale stanno lavorando le imprese quotate in Borsa è quella  di prevedere un bilancio integrato tra conto economico e conto sociale (e perché no, anche conto ambientale, aggiungiamo noi). Se ne è parlato  recentemente a un convegno organizzato dall'Aifi, associazione che rappresenta gli investitori in capitale di rischio, ma movimenti in tal senso arrivano anche dal Csr manager, network che riunisce i responsabili delle politiche di sostenibilità (ambientale e sociale) delle maggiori società italiane, fondata da Altis (Alta scuola impresa e società) dell'università Cattolica e da Isvi, istituto per i valori di impresa.

Il report integrato del resto è già obbligatorio in diverse legislazioni europee e per questo Csr manager network intende aprire un tavolo di confronto anche italiano, di fatto anticipando i lentissimi ingranaggi istituzionali italiani: «Il report integrato - spiega Valentina Torcia di Vodafone Italia - offre una visione globale delle performance di lungo termine e delle connessioni tra profittabilità e sostenibilità, in una logica di trasparenza verso la collettività».

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