[14/08/2009] News

Il tifone Morakot e la "strana" dinamica delle tempeste nel Pacifico

FIRENZE. Sembra destinato a crescere oltre i 500 morti il conto delle devastazioni causate a Taiwan dal tifone Morakot. Lanci d'agenzia riportano infatti che, alle 117 vite già perdute, sono destinate ad aggiungersene altre 380, almeno secondo le dichiarazioni del presidente Ma Ying-jeou, che ha annunciato ieri «la morte quasi certa di 380 persone nel villaggio di Hsiao Li», sepolto da una colata di fango scesa dalle montagne circostanti.

I danni, solo per la repubblica nazionalista cinese, ammontano a circa 900 milioni di dollari secondo le prime stime, ma il primo ministro Liu Chao-shiuan ha parlato, secondo l'Ansa, di 3,4 miliardi. Lo stesso tifone ha colpito le Filippine (22 morti) e, dopo aver perso potenza la Cina, causando la morte di 8 persone.

Da più parti si parla di «tifone più violento degli ultimi 50 anni»: un'affermazione che può essere letta in un duplice senso: da una parte il giudizio sull'intensità di un uragano (o di un tifone, come è chiamato nel Pacifico) può derivare dal calcolo dei danni stimati, ed è questa una metodologia di analisi "sociale" dell'effetto degli uragani che è molto utile per monitorare il loro effetto sulle comunità umane, ma che poco o niente dice sull'effettiva potenza delle celle depressionarie.

Occorre infatti considerare la forte componente di casualità degli effetti: per restare sulla questione Taiwan, se non ci fosse stata l'inondazione di fango nella valle di Hsiao li i morti sarebbero stati un quarto di quelli stimati, ma basta pensare anche al tifone Fengshen, che nel giugno 2008, affondò un traghetto nel mare delle Filippine, causando quasi 900 morti che si sommarono alle 200 vite spezzate sulla terraferma.

Insomma, per capire l'intensità degli uragani appare più utile ragionare in termini climatologici, anche e soprattutto per poter monitorare la loro evoluzione nel tempo alla luce del cambiamento climatico in corso: il Joint hurricane warning center (Jhwc) della marina statunitense, indica in 31 il numero di cicloni tropicali che in media ogni anno si formano nel pacifico nord-occidentale. Un valore che si è abbassato negli ultimi anni (vedi immagine), dopo aver raggiunto punte ben superiori nel corso degli anni '90 del secolo scorso. E dinamica analoga hanno i cosiddetti "super-tifoni", con venti superiori ai 134 nodi, cioè di categoria 5 (la massima) della scala Saffir-Simpson. Si evidenzia quindi una dinamica che negli ultimi 10 anni è stata inversa a quella attesa in un contesto di progressivo riscaldamento globale.

Spostandoci nell'Atlantico, però, le cose cambiano radicalmente, anche se quest'anno la stagione degli uragani deve ancora iniziare, evento che non è così desueto (la media per giugno e luglio in Atlantico è - dati Noaa/Nhc - di 1-2 eventi in tutto), ma che indica una variazione netta rispetto agli ultimi anni: per esempio nel 2008 a fine luglio erano già 8 i sistemi sufficientemente forti da aver ricevuto una denominazione ufficiale, e 7 erano nel 2005.

Il trend è inequivocabile: si evidenzia, sia pure in un normale ciclo oscillatorio, un costante e secolare trend di crescita sia degli eventi in generale sia di quelli con forte intensità, e in particolare sono proprio gli ultimi 10 anni ad aver visto una mai verificatasi prima costanza nella formazione annuale sia degli uragani in generale sia di quelli intensi: ciò significa che, anche se le 3 stagioni record in termini di numero delle tempeste sono state precedenti (1933, 1968, 1994), quasi tutte le stagioni degli ultimi 10 anni hanno visto un numero di uragani non record, ma che comunque è entrato nel novero delle dieci stagioni più tempestate, sia per gli uragani in generale sia per quelli più forti.

Ecco quindi che per analizzare l'evoluzione degli uragani alla luce del cambiamento climatico (lasciando perdere l'intensità dei singoli eventi, e concentrandosi sui trend), occorre evidenziare come la nota correlazione tra eventi estremi e Gw data dalla maggiore energia presente nella troposfera, stia tendenzialmente verificandosi come previsto nell'oceano Atlantico settentrionale, ma non in quello Pacifico settentrionale.

Misteri del clima? No, solo una questione di distribuzione dell'energia in zone diverse, e l'ennesima dimostrazione di come la scienza climatologica debba ancora fare enormi passi in avanti.

Ma queste sono considerazioni che non interessano agli abitanti di Taiwan che, così come tutte quelle popolazioni esposte alla traiettoria degli uragani, necessitano di essere messi in sicurezza il più possibile e il prima possibile da eventi che, anche se negli ultimi 10 anni sono diminuiti in zona, sono comunque destinati ad aumentare nel lungo periodo, almeno secondo le previsioni più accreditate, e in una naturale ottica di applicazione del principio di precauzione. Principio la cui applicazione diventa più urgente e necessaria davanti ad ogni ambito in cui, come in questo caso, la scienza mostra dubbi e contraddizioni.

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