[07/07/2010] News

Fit o Tobin tax non importa, purché sia!

GROSSETO. Si chiama Fit (financial transaction act), ovvero un'imposta di piccola entità da mettere sulle transazioni finanziarie per coprire i costi della crisi e per provare a mettere un freno alle attività speculative. Proposta nel corso del G20 di Toronto che si è  concluso però  senza un niente di fatto: né con l'approvazione della Fit né di altri provvedimenti che avessero risultati analoghi. La proposta ha avuto però il merito di aver nuovamente alimentato un dibattito in merito  tra gli economisti, che è ospitato sul Sole24 ore.

Una proposta che trae origine nella Tobin Tax, ovvero l'imposizione di una piccola imposta sulle transazioni valutarie ideata nel 1972 dal Nobel per l'economia James Tobin, i cui obiettivi erano quelli di promuovere l'efficacia delle politiche macroeconomiche e di ridurre la speculazione

La Tobin tax prevede  un prelievo limitato, da applicare a tutte le transazioni valutarie: «qualche granello di sabbia tra le ruote della finanza internazionale» a dirla con parole dello stesso Tobin, che adesso trova qualche consenso anche tra coloro che l'avevano invece sempre trovata iniqua. La Fit sarebbe da applicare solo alle transizioni finanziarie.

Tra i primi sostenitori ed apripista nel dibattito Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa San Paolo, che anche oggi dalle pagine del quotidiano di Confindustria ribadisce che «una tassa sulle transazioni è un'ipotesi d'intervento fiscale globale - se adeguatamente messa a punto- meno negativa e invasiva di altre». Cui non va dato necessariamente il valore e il peso di strumento salvifico e moralizzatore del mercato finanziario, ma che può produrre comunque degli effetti positivi. «Naturalmente- scrive Passera-  nessuno può pensare che a una iniziativa fiscale di questo genere si possa chiedere di evitare future crisi che possono invece essere scongiurate solo con buone regole e buoni controlli».

Ma intanto avrebbe l'effetto, secondo quanto scrive Leonardo Becchetti, ordinario di Economia Politica della Facoltà di Economia dell'Università Tor Vergata, di frenare «il comportamento di chi opera sui mercati con orizzonte brevissimo con molteplici operazioni di acquisto e di vendita, ciascuna con piccoli margini di guadagno, concluse spesso in pochi minuti sugli indici dei titoli derivati» Che certo non gradirebbero, come scrive Passera. Ma comunque non è il loro gradimento a dover essere considerato a riferimento, dato che asserisce l'ad di Intesa «è quanto meno discutibile» che «gli obiettivi di crescita economica e sociale coincidano con l'interesse di questa categoria di intermediari». Almeno è da augurarselo!

Ci sono «però due motivazioni più forti per le quali è difficile dubitare quanto a coerenza ed efficacia» di questo prelievo sulle transazioni finanziarie, scrive Becchetti, ovvero la « sua capacità di raccogliere ingenti somme per il finanziamento dei beni pubblici globali» e il fatto che la sua finalità «risponde a un principio di responsabilità fiscale».

Nel primo caso, ovvero la possibilità di raccogliere cifre importanti da destinare a risolvere almeno alcuni dei problemi che affliggono una ingente mole di popolazione sul pianeta, i dati che cita l'economista si riferiscono ad una ricerca (Schulmeister 2008 Wifo) che ha stimato che «una tassa minima (dello 0,05%), se imposta a livello globale, raccoglierebbe circa 655 miliardi di dollari al netto dell'elasticità della domanda, ovvero pur considerando la riduzione attesa delle transazioni a seguito dell'applicazione della tassa». Una cifra certo da non sottovalutare e, a metro di paragone, porta il calcolo fatto dalle Nazioni Unite per garantire la scolarizzazione primaria a tutta la popolazione mondiale che ammonta ad una cifra tra i 15 e i 30 miliardi di dollari.

Quindi l'istituzione della Fit potrebbe dare vita ad un fondo da utilizzare in vario modo per interventi sociali o di sviluppo di economie locali o per essere utilizzato dagli stati per risolvere i disagi provocati dalle crisi finanziarie. Che non è proprio una ipotesi da scartare.

La seconda motivazione per cui secondo Becchetti la Fit è da considerarsi un provvedimento da prendere in considerazione è il fatto che potrebbe in qualche modo riequilibrare il peso degli effetti della crisi che gravano in pratica solo sui cittadini e non su chi è responsabile di averla innescata e alimentata. «La storia delle finanziarie approvate e in corso di approvazione nei vari paesi europei - scrive Becchetti- ci dice che i cittadini hanno pagato due volte. Prima vedendo drammaticamente peggiorate le prospettive di lavoro nei paesi ad alto reddito. Poi subendo l'onere delle misure di emergenza necessarie per scongiurare la crisi dei debiti pubblici di paesi che li hanno aumentati per soccorrere le banche». E' pertanto legittimo «che si raccolgano risorse da coloro che ne hanno in abbondanza e laddove la crisi è stata generata».

Oltretutto considerando che per questi soggetti, si tratta di briciole ma che «le briciole delle singole transazioni finanziarie possono diventare tutte assieme risorse importanti per la stabilità dei debiti pubblici nazionali e per il finanziamento dei beni pubblici globali riducendo l'onere della crisi sui contribuenti e sulle fasce più deboli».

L'auspicio a questo punto è che le voci favorevoli all'istituzione di questa piccola imposta, tra cui quella di questo giornale, siano come le briciole delle transazioni finanziarie: prese singolarmente sono poca cosa ma messe tutte quante assieme possono diventare un autorevole coro.

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