[18/06/2010] News

Navi dei veleni, Greenpeace riscoperchia il vaso di pandora

GROSSETO. Sintesi di una storia che non finisce mai. E' questo il sottotitolo dell'inchiesta di Greenpeace sulla vicenda delle navi dei veleni, che si inserisce tra le attività dell'Osservatorio per un Mediterraneo libero da veleni, istituito in Italia lo scorso febbraio da numerose Associazioni ambientaliste e del mondo della pesca insieme a comitati e istituzioni scientifiche. 

E da questa inchiesta emergono elementi che indicano che il governo italiano avrebbe respinto l'offerta da parte del Ministero della difesa britannico di mezzi e personale tecnico altamente qualificati e a quanto pare meno onerosi in termini economici di quelli della Mare Oceano, poi utilizzata per verificare la presenza delle navi affondate per smaltire il carico di rifiuti che trasportavano, secondo le indicazioni emerse da parte di alcuni collaboratori di giustizia.

Una vicenda che è tornata sulle cronache - per poi insabbiarsi di nuovo - per il clamore suscitato in seguito al presunto ritrovamento del relitto della nave Cunski al largo di Cetraro, in Calabria, ufficialmente smantellata ad Alang (India). «Sui dubbi relativi all'identificazione del relitto con il piroscafo "Città di Catania" (costruito quasi mezzo secolo prima e affondato durante la Prima Guerra Mondiale) - si legge nell'inchiesta di Greenpeace - si è già espresso l'Osservatorio per un Mediterraneo libero da veleni».

Ma altri dubbi sono emersi «considerando che, dopo le prospezioni della Regione Calabria, le ricerche governative sono state condotte da una nave (la Mare Oceano) di proprietà di un gruppo armatoriale (Attanasio) uno dei cui esponenti è stato coinvolto nel "Caso Mills", ben noto alle cronache italiane». E così come non sono mai stati resi pubblici i termini del contratto con la nave del gruppo Attanasio, così nemmeno l'informazione che il governo avrebbe potuto avvalersi del personale messo a disposizione del ministero della difesa britannico è stata diffusa.

Greenpeace in questa inchiesta ripercorre la «vergognosa epopea dei trasporti di scorie tossiche e radioattive smaltite illegalmente soprattutto in Africa negli ultimi 15 anni» e traccia anche «l'evoluzione di questo traffico che, da attività individuali, si è organizzato attraverso una serie di nomi (di persone e imprese) spesso segnalati ad investigatori e magistrati ma che non di rado l'hanno fatta franca: il sospetto che "la rete" operi ancora non può non affacciarsi. Faccendieri e affaristi qui menzionati, sono talvolta ancora attivi».

Traffici che hanno spesso seguito traiettorie così tortuose da far perdere le tracce: hanno interessato paesi esportatori (l'Italia, ma anche altri paesi europei), snodi più o meno noti (come la Romania) e spesso si sono concluse in posti assai diversi (dal Libano alla Somalia, da Haiti alla Costa d'Avorio) ma tutti accomunati da una cronica carenza di infrastrutture e di  politiche di controllo e gestione dei rifiuti.

Nel rapporto si rilevano anche  ulteriori riscontri sulla scandalosa vicenda del traffico di rifiuti verso la Somalia, in cui sono rimasti vittime due operatori dell'informazione italiana, Ilaria Alpi e Miriam Hrovatin, uccisi perché la loro ricerca era arrivata evidentemente ad elementi troppo scottanti. Traffici in cui si sono intrecciati corruzione, rifiuti ed armi che hanno  caratterizzato i rapporti Italo-Somali negli ultimi 20 anni e che nonostante vi abbiano posto l'attenzione diverse istituzioni ed organismi di controllo italiani, non si è mai riusciti a venirne a capo e a fare giustizia per chi ci ha rimesso la vita. 

Adesso, si legge nel rapporto di Greenpeace «esiste una mole impressionante di fatti e dati che, anche se pur non ha prodotto una verità giudiziaria, può permettere la ricostruzione di una verità storica ormai matura».

Testimonianze, corredate di inequivocabili fotografie già in possesso della Magistratura italiana che dimostrano - si legge nella nota dell'associazione ambientalista- «che il porto di Eel Ma'aan, 30 km a nord di Mogadiscio, è stato costruito (da imprenditori italiani) interrando nei moli centinaia di container di provenienza assai sospetta».

In una nota della polizia giudiziaria del 24 maggio 1999 si legge infatti che : «i container interrati nel porto di Eel Ma'aan erano pieni di rifiuti: fanghi, vernici, terreno contaminato da acciaierie, cenere di filtri elettrici».

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