[24/05/2010] News

Presente e futuro dell'economia ecologica: intervista a Robert Costanza

FIRENZE. Dalle prospettive per il perseguimento (o il "raggiungimento") dell'economia ecologica a quelle relative agli indicatori alternativi di sviluppo, fino all'ipotesi di una ridefinizione del concetto di proprietà rispetto a quelle risorse che rivestono carattere di scarsità. In occasione della conferenza "Economia globale e crisi ambientale", svoltasi a Firenze venerdì scorso, abbiamo incontrato Robert Costanza (nella foto), professore di Economia ecologica presso l'università del Vermont (Usa) e direttore del locale Gund institute for ecological economics.

Costanza, oltre che essere considerato uno dei massimi esperti planetari in tema di riconversione ecologica dei sistemi socio-economici, è stato anche co-fondatore e presidente della Società internazionale per l'economia ecologica (International society for ecological economics - Isee) e ha recentemente (gennaio 2010) fondato, insieme ad altri accademici, la rivista peer-reviewed "Solutions".

Professor Costanza, l'economia ecologica è un orizzonte verso cui tenere la rotta, o un "punto di arrivo" cui un giorno la società potrà effettivamente giungere?

«Raggiungerla non so, ci spero, ma sicuramente l'economia ecologica è soprattutto un obiettivo di lungo termine, verso cui puntare. E "puntare alla sostenibilità" assume due significati: da una parte la sostenibilità propriamente intesa, dall'altra la qualità della vita, anch'esso elemento riguardo al quale il sistema corrente necessita di un miglioramento. Ciò in concreto significa in primo luogo affrontare il problema dell'approccio alla crescita economica, che poi è il problema principale, insieme a quello della distribuzione delle risorse economiche, e quindi della povertà. Molto importante è anche il problema della scala di intervento (locale, nazionale, sovra-nazionale, nda), e - non ultima - la questione del controllo della popolazione sul pianeta».

Argomento, quello del controllo della popolazione, molto delicato, e che sia nel continente americano sia in maniera ancora maggiore in Europa resta ai margini del dibattito sulla sostenibilità.

«L'argomento è delicato e devo dire che personalmente credo non ci sia bisogno di un approccio così draconiano (o meglio di un approccio "cinese" al problema), ma che siano sufficienti interventi sia generali sia localizzati per il miglioramento della qualità di vita e per un migliore uso delle risorse. Non abbiamo bisogno di spingerci fino a questo punto, insomma.

Peraltro, si tratta di un processo, quello del controllo della popolazione, che tende ad avvenire spontaneamente nei paesi sviluppati, compresa l'Italia. Un paese, il vostro, nel quale in termini di qualità di vita sussistono anche problemi legati alla condizione femminile e in generale alla gestione del capitale sociale».

Nella conferenza del 21 maggio, ampio spazio hanno ricevuto le questioni legate alla definizione (e all'affermazione sociale, politica, economica e mediatica) dei nuovi indicatori di sviluppo. Ma, al di là del dibattito, quali step concreti mancano per passare dall'attuale "dittatura del Pil" alla citata affermazione dei nuovi indicatori?

«Mancano vari fattori a varie scale di grandezza. In questo percorso sono coinvolti i corpi governativi, la comunità scientifica, la politica, e credo anche il pubblico generale, cioè la "comune popolazione". Questo perché il pubblico tende a non interessarsi del Pil, l'unico "indicatore" che conta per molte persone è... il non perdere il proprio lavoro.

Di conseguenza, siccome è anche la popolazione che deve comprendere che la qualità di vita è importante come il Pil, ma spesso per vari motivi non vuole o non è in condizione di capirlo, occorre una migliore e più semplice comunicazione al pubblico di questi aspetti. Occorre, insomma, agire anche sulla risorsa psicologica, per far comprendere anche al grande pubblico che cosa c'è in ballo.

Comunque, è da sottolineare come negli ultimi tempi siano stati compiuti dei notevoli passi in avanti nel percorso verso i nuovi indicatori: ad esempio, quando l'8 maggio scorso il chairman della Federal reserve Ben Bernanke ha parlato in un convegno della sua visione della "economics of happiness", molte persone non si sarebbero mai aspettate che questo fosse l'argomento di dibattito. E credo che anche la cosiddetta "commissione Sarkozy" rappresenti un vero e proprio step in questo percorso, perché ha di colpo alzato il livello del dibattito.

E comunque, io credo che in un certo senso possiamo dire che la crescita economica sta terminando ovunque, almeno nei paesi ricchi, e questo aiuterà le persone a pensare alla necessità di un diverso sviluppo e aiuterà anche la transizione verso i nuovi indicatori».

A questo proposito, rammentiamo come lei sia considerato tra gli studiosi che per primi hanno affrontato la questione dei nuovi indicatori, proponendo strumenti di misura alternativi, come il Genuine progress index (Gpi), che ha la caratteristica di considerare - a parte i flussi di materia, di energia e in generale gli impatti ambientali - solo quegli elementi sociali (come i costi della criminalità) più direttamente misurabili, e in questo senso appare più evoluto (cioè più concretamente "applicabile") rispetto a quegli indici che considerano fattori più spiccatamente soggettivi, in primis la "felicità". Ma, spingendo questo discorso all'estremo, non sarebbe una strada politicamente e mediaticamente più praticabile quella che punta all'istituzione di un vero e proprio "Pil verde"? In poche parole, non basterebbe sottrarre al Pil i costi ambientali (che comunque vanno in buona parte ancora misurati, ma che perlomeno sono - o saranno sempre più - misurabili con relativa esattezza), e lasciare i fattori sociali (e la loro vaghezza e disomogeneità nella contabilizzazione) al margine, almeno in un primo momento?

«Io credo che il Pil sia uno step, per la nostra società, uno step che misura la ricchezza. E servono altri step per arrivare alla misurazione della qualità. Certo, il problema della soggettività esiste, ma credo che con l'evoluzione delle metodologie si andrà proprio verso una maggiore oggettività dei rilevamenti. In questo senso, credo che la linea d'azione della European environment agency, descritta oggi dalla direttrice dell'agenzia Mc Glade (vedi link in fondo alla pagina, nda), sia proprio ciò che serve: occorre, cioè, creare connessioni con la popolazione comune, in modo che essa a sua volta "entri in connessione" col problema. E sarà anche per questa via che un giorno saremo in grado di usare indicatori "misti", cioè che uniscano i dati oggettivi con quelli soggettivi: la questione, insomma, non è "oggettivo vs soggettivo", ma capire il modo in cui introdurre in un indice unico i dati provenienti da entrambi i campi di rilevamento».

Nel suo intervento di oggi, lei ha accennato alla "ridefinizione del concetto di proprietà" e alla necessità di una "riforma fiscale ecologica". Può spiegare meglio cosa intende? E, in generale, qual è secondo lei il modo migliore per internalizzare nel mercato i costi sociali e ambientali della crescita?

«Quello del "diritto di proprietà" è un concetto ampiamente discusso da Elinor Olstrom, premio Nobel per l'economia 2009, e dal suo gruppo di lavoro. Anche loro ritengono che occorra ridefinire il modo cui vengono sottoposte a diritto di proprietà quelle risorse naturali disponibili in quantità scarsa. Un esempio potrebbe essere quello che è stato chiamato "Earth atmosperic trust", che a diverse scale potrebbe, in un certo senso, essere il fondo di "proprietà comune" per l'aria raccogliendo tariffe per i danni compiuti al capitale naturale e/o sociale, e re-investendoli poi nella conservazione e creazione di queste risorse: questo perché se non esiste un "proprietario" del capitale di risorse non esiste neanche la possibilità di penalizzare chi danneggia il capitale utilizzandolo in modo improprio.

In generale, così come si sta affermando un "carbon market", potrebbero costituirsi dei fondi di gestione delle risorse. Fondi che, peraltro, potrebbero comprendere, per gli azionisti, anche dei dividendi, derivanti dalla redistribuzione delle risorse economiche da chi inquina di più verso chi inquina meno: certo, devo dire che se si affermasse questa ipotesi operativa, è ovvio che anche India e Cina dovrebbero farne parte, e questo creerebbe problemi non da poco».

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