[20/04/2010] News toscana

Stato delle colture no-food in Toscana, Croce (Legambiente): la strada giusta è l’integrazione, anche col fotovoltaico

FIRENZE. Le colture energetiche no-food sono una strada promettente, o esse rappresentano solo "terre sottratte all'agricoltura"? Secondo Beppe Croce, responsabile del settore Ruralità di Legambiente Toscana, il problema esiste ma può essere ridotto praticando la rotazione colturale, accorciando la filiera, puntando alla tracciabilità delle materie prime e valorizzando, come co-prodotti per l'alimentazione zootecnica, i residui derivanti dalla lavorazione del girasole, con la conseguenza peraltro anche di una minore necessità di ricorrere all'importazione di prodotti foraggeri, spesso (come nel caso della soia) derivanti da coltivazioni ogm. In questo senso va il progetto per il no-food attualmente condotto in Toscana, che è da considerarsi un'iniziativa "gemella" dell'ormai concluso progetto "S.I.E.n.a. (vedi link in fondo alla pagina) e che ne costituisce un'evoluzione verso l'utilizzo di biocarburante puro e non più di una miscela.

Questa integrazione tra le diverse pratiche, secondo Croce, è la ricetta giusta anche per la questione del fotovoltaico a terra su terreni rurali: in questo senso sono da scoraggiare, invece, i grandi impianti fv piazzati su ampie estensioni rurali.

Croce, quale seguito ha avuto il progetto  S.I.En.a. (Sviluppo integrato delle energie rinnovabili provenienti dal settore agricolo), il progetto-pilota per la creazione di una filiera corta del biodiesel nella provincia di Siena?

«Quest'anno è stata attivata un'iniziativa "gemella", incentrata sulla creazione di una filiera pilota per l'utilizzo di olio vegetale puro, e non più di carburante "misto" come previsto nella fase conclusasi lo scorso giugno. Inoltre il progetto attuale è incentrato maggiormente sul settore agricolo rispetto al passato.

Le semine, che sono in corso proprio in questi giorni, riguardano 8 aziende dalle caratteristiche molto differenziate tra loro (grandi/piccole, biologico/non biologico, ecc.). La coltura riguarda quasi esclusivamente il girasole, che sarà spremuto a freddo presso l'azienda di Mondeggi (Fi) e sarà utilizzato poi in diversi modi: l'olio, infatti, potrà servire ad aziende dotate di serre, per l'azionamento del bruciatore che a questo proposito necessita solo di ricevere degli adattamenti al carburante utilizzato. Altre aziende lo utilizzeranno per la cogenerazione, altre per alimentare i trattori. Un altro ambito importante di applicazione, infine, riguarda un'azienda agricola che utilizza decine di migliaia di litri (siamo sui 40.000 litri/anno) di acqua per l'irrigazione, e che potrà far funzionare le pompe con l'olio da girasole.

Ma l'obiettivo non è tanto di matrice tecnica, ma riguarda soprattutto la creazione di una filiera, in modo da far sì che tutti i componenti di essa (chi coltiva, chi spreme, ecc.) abbiano il loro tornaconto economico.

E poi ci sono i co-prodotti della lavorazione del girasole, che sono utilizzabili per l'alimentazione zootecnica: e questo è un punto molto importante, perché spesso le colture alimentari e quelle no-food vengono messe in contrapposizione. Questo è tendenzialmente un errore: certo, se la logica di impresa gira intorno al "faccio l'impianto, e poi vediamo come e con cosa lo alimento", allora ciò che ottengo sono solo danni all'agricoltura e alla fertilità dei terreni. Discorso diverso vale invece se faccio le cose in altro modo, ad esempio - appunto - puntando sia alla produzione di no-food sia a quella di co-prodotti foraggeri. E questo, peraltro, permette di ridurre le importazioni di mais e soia dai paesi esteri: due colture che sono, nel mondo, derivanti al 50% (per il mais) e quasi al 100% (per la soia) da coltivazioni ogm. Teoricamente in Italia questi ogm non dovrebbero entrare, ma le importazioni sono difficili da controllare: con la produzione di co-prodotti foraggeri, il problema dell'import si ridurrebbe».

Quindi possiamo giudicare sovra-stimata l'incidenza del problema "food vs no-food"?

«Il problema-cibo non deriva tanto dalle colture energetiche, quanto dal fatto che milioni di persone, nel mondo, si stanno orientando verso il consumo di carne bovina, con tutti i problemi (produzione di metano, consumo di suolo) annessi: in Argentina ci sono ormai milioni e milioni di Ha destinati alla sola produzione di colture foraggere, questo è il vero problema. Inoltre, troppa poca importanza è stata data al mantenimento del criterio della rotazione delle colture: dovunque, nei decenni passati, l'attività agricola è stata condotta in direzione della monocoltura/monosuccessione, si sono avuti gravi problemi di perdita di fertilità. Invece la rotazione (un caso di scuola in tal senso è quanto sta venendo realizzato nelle Murge, in Puglia) permette non solo di produrre anche energia, ma anche di migliorare la resa del grano e del mais piantati. Quindi, in definitiva, la diatriba food-no food assume un valore diverso se le azioni colturali comprendono la pratica della rotazione e la produzione di co-prodotti.

E poi ci sono gli incentivi: l'Ue, anche se non ha attivato vere e proprie iniziative per la filiera corta, comunque ha posto in atto una politica finalizzata ad evitare che venga usato olio proveniente da chissà dove. In pratica, l'Ue vincola i finanziamenti alla tracciabilità della filiera e alla provenienza comunitaria dell'olio: e, anche se quest'ultima condizione non ha più molto senso (si può usare olio rumeno, ma non ucraino?), comunque essa dovrebbe impedire che le centrali a biomasse agricole italiane siano alimentate con olio di palma derivante dalla distruzione di foreste tropicali.

Poi gli impianti a olio di palma si possono fare, certo, anzi dove mi trovo ora (zona di Cortona- Ar) ce ne sono molti: ma gli incentivi europei sono, per questo tipo di pratiche, minimi (sui 18 cents/kwh), mentre per avere incentivazioni maggiori (fino a 28 c/kwh) l'Ue impone tracciabilità e dimensioni dell'impianto minori di 1 Mw».

Ma come si valuta e si garantisce la tracciabilità?

 

«Su questo, proprio pochi giorni fa (il 31 marzo) è uscita una circolare che spiega questo aspetto: il meccanismo sarebbe complesso, ma comunque per ora è stato introdotto un regime transitorio, che si basa sostanzialmente sull'autocertificazione».

Quale, secondo lei, il punto di equilibrio tra colture energetiche, tutela del paesaggio e installazione di impianti fotovoltaici su terreni agricoli, anche alla luce dell'intervento di Carlo Petrini su "Repubblica" di sabato?

«Premesso che non ho potuto ancora leggere l'intervento di Petrini, comunque consideriamo anzitutto che gli incentivi per le colture energetiche (come detto, fino a 28 c/kwh) sono molto minori del fotovoltaico a terra, che riceve incentivi per 38-40 cent/kwh. I due ambiti di trasformazione energetica possono essere posti in opera in modo integrato, attraverso impianti di dimensioni modeste. Però devo dire anche che stanno uscendo molti progetti per la creazione di impianti fotovoltaici di grandi dimensioni, come nel distretto di Cortona di cui sopra, dove sono in corso progetti per 30 impianti fv a terra.

E peraltro parliamo di diversi progetti da 4 ettari, e di uno da 16 ettari che sarebbe realizzato al confine tra Umbria e Toscana, in una zona considerata degradata ma dove comunque un impatto si avrà: insomma, il tema del fotovoltaico sui terreni agricoli è da tenere sott'occhio, agendo anche in direzione di limiti e disincentivazioni. E il punto è agire perché le colture energetiche e il fv siano tra loro integrati, e non sostitutivi.

Ed è vero che un ettaro di fotovoltaico produce più elettricità di 10 ha di girasole, cioè il ciclo delle biomasse ha un'efficienza energetica minore di quello del fv: ma occorre considerare che le biomasse non sono "materia bruta" come il petrolio o il carbone, ma bensì parti integranti di un sistema vivente che, oltre alla resa energetica ed alimentare, dà anche risultati in altre direzioni, come ad esempio quella riguardante la tutela del paesaggio».

Torna all'archivio