[04/08/2009] News

L’ecologia del restauro o della restaurazione

ROMA. Gli inglesi la chiamano «restoration ecology», che in italiano viene tradotto - piuttosto malamente - in «ecologia del restauro» o «restauro ecologico». Una migliore traduzione sarebbe, con ogni probabilità, «ecologia della restaurazione». Perché in fondo si tratta di una disciplina scientifica e di interventi pratici tesi appunto a riportare alle condizioni originarie un ecosistema rivoluzionato dall'uomo.

Sia come sia, alla «restoration ecology» la rivista americana Science ha dedicato, venerdì scorso, un numero speciale. Raccontandoci gli sforzi per ripristinare - o, se volete, per restaurare - le condizioni originarie delle degradate foreste cinesi del Guangxi o indonesiane del Borneo, delle barriere coralline al largo del Giappone, di alcuni ecosistemi unici del Sud Africa e dell'Asia meridionale.

Si tratta di sforzi significativi e meritevoli di plauso, oltre che di attenzione. Sottolineano un cambio, finalmente in positivo, di sensibilità. Tuttavia c'è un'altra parte, la seconda, dello speciale di Science che si sofferma su alcuni aspetti teorici della «restoration ecology» e su alcune spinte culturali che la influenzano.

Gli aspetti teorici sono profondi. Cosa significa riportare un ecosistema degradato alla sue condizioni iniziali. L'ecosistema non è un sistema fisso, ma dinamico. Che muta nel tempo. Quali sono le sue condizioni originari? Quelle di cento, mille, centomila anni fa? E non è vero, forse, che su molti ecosistemi, ha agito l'uomo in tempi tutt'altro che recenti? E non è vero che ogni azione oggi da parte dell'uomo, anche di restauro o di restaurazione, è, per definizione, un artificio? E non è forse possibile che un ecosistema che evolveva in condizione brillanti in tutt'altre condizioni ambientali, oggi, che l'ambiente intorno è mutato, potrebbe evolvere con difficoltà?

Ancora domande. E, poi, non è forse vero che oggi sappiamo ancora troppo poco delle complesse dinamiche di un ecosistema per essere certi che un nostro intervento non si riveli maldestro? È stato dimostrato, per esempio, con l'intervento (di restauro) di alcune paludi per diminuire il rilascio di azoto ha determinati una maggiore disponibilità di mercurio per i pesce delle aree costiere adiacenti. 

Sono domande aperte. Su cui non abbiamo risposte. E che ci consigliano sempre grande prudenza e umiltà quando affrontiamo il tema del «restauro ecologico». Tuttavia ci sono altri problemi, per così dire, di nuova generazione con associato un rischio ancora maggiore. Si sta sviluppando l'idea che la «restoration ecology» non debba limitarsi a cercare di riportare un ecosistema alle sue condizioni iniziale, ma debba anche produrre servizi ecologici per l'uomo con un valore di mercato.

Per esempio, ripiantiamo un'area forestale dove sono stati tagliati gli alberi non solo per ripristinare l'ecosistema originario ma anche per assorbire anidride carbonica, un servizio che, nell'ambito della Convenzione climatica, ha ormai un valore di mercato.

Nulla da dire: il fine e ottimo e lo strumento (il mercato) è efficiente. Tuttavia espone a due rischi. Il primo è che il la «restoration ecology» cessi nel tempo di guardare all'equilibrio ecologico (che è, ricordiamolo, un equilibrio dinamico) come a un bene che ha un valore in sé e cominci a considerarlo solo o prevalentemente per i benefici che apporta all'uomo.

Il secondo motivo è che non c'è alcuna garanzia apriori che restaurazione di un ecosistema e beneficio ecologico per l'uomo siano concetti coincidenti o largamente sovrapponibili. Possono essere anche concetti divergenti. La divergenza o la convergenza tra questi concetti deve essere valutata caso per caso. E singolo caso per singolo caso devono essere operata la scelta di privilegiare l'uno a scapito dell'altro. Insomma, non possiamo sfuggire facilmente al ruolo e alla responsabilità che abbiamo acquisito di attori ecologici coscienti.

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