[09/04/2010] News

La materia dei rifiuti è di competenza esclusiva dello Stato

LIVORNO. La materia dei rifiuti ma anche quella della Via per i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi con determinate caratteristiche, rientra nella potestà legislativa esclusiva dello Stato. Lo Stato ha competenza esclusiva in materia ambientale (articolo 117 secondo comma, lettera s, della Costituzione) e quindi può emanare regolamenti - come quello sui centri di raccolta dei rifiuti urbani - per esigenze di uniformità su tutto il territorio.

Lo afferma la Corte Costituzionale che con sentenza di questo mese dichiara illegittima la legge della regione Umbria del 2009 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), nella parte in cui attribuisce ai Comuni la funzione di rilascio, rinnovo e modifica dell'
autorizzazione alla gestione dei centri di raccolta dei rifiuti solidi urbani; nella parte in cui esclude dal campo di applicazione della legge stessa, determinati sedimenti (ossia quelli esclusi dal campo di applicazione della direttiva dei rifiuti del 2008 la numero 98- non ancora recepita dallo Stato-) e nella parte in cui esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi. Perché a livello nazionale nessuna autorizzazione è prevista per la gestione dei centri raccolta dei rifiuti urbani. Perché comunque la legge regionale è in contrasto con la normativa nazionale.

La disciplina nazionale è costituita in primo luogo dal dlgs. 152 del 2006 (nello specifico articolo 183, comma 1, lettera cc). In tale contesto il legislatore nazionale definisce che cosa si debba intendere per "centro di raccolta" . Ossia quell'"area presidiata ed allestita, senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica, per l'attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento".

Dopo di che aggiunge che "la disciplina dei centri di raccolta è data con decreto del ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. E questa disciplina è stata dettata dal Dm 8 aprile 2008 (disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall'articolo 183, comma 1, lettera cc, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche) successivamente modificato dal decreto ministeriale 13 maggio 2009 (che sostituisce nel titolo dell'articolo 2 "Autorizzazioni e iscrizioni" la parola "autorizzazioni" con il termine "approvazioni").

Secondo il Dm il soggetto che gestisce il centro di raccolta deve solamente essere iscritto all'Albo nazionale dei gestori ambientali. Mentre è la realizzazione dei citati centri, e non anche la gestione di essi, che deve essere approvata dal Comune territorialmente competente.

La normativa nazionale (ossia il Dlgs 152/06 che a sua volta traduce la direttiva sui rifiuti 2006/12 sostituita dalla nuova del 2008) inoltre, da la definizione di "rifiuto". E fra le sostanze escluse dal campo di applicazione individua le "acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido", ma fra questi non ricomprende i sedimenti, che costituiscono residui semi-solidi, derivanti dal trattamento delle acque.

La legge regionale in questione invece li sottrae dalla nozione di rifiuto. Ma sottraendo taluni residui che, invece, corrispondono alla definizione sancita del 2006, si pone in contrasto non solo con la normativa nazionale ma anche con la direttiva medesima. Perchè non sono consentite esclusioni da parte del legislatore regionale di particolari sostanze o materiali in astratto ricompresi nella nozione di "rifiuto" stabilita dalla legislazione statale in attuazione della direttiva comunitaria.

E' pur vero che la disposizione regionale riproduce quasi letteralmente il testo dell'articolo 2, paragrafo 3, della nuova direttiva sui rifiuti (2008/98/CE) che però non è stata ancora recepita da legge statale.

La norma comunitaria introduce una esclusione dall'ambito di applicazione della stessa direttiva, proprio relativamente ai "sedimenti spostati all' interno di acque superficiali ai fini della gestione delle acque e dei corsi d'acqua o della prevenzione di inondazioni o della riduzione degli effetti di inondazioni o siccità o ripristino dei suoli, se è provato che i sedimenti non sono pericolosi".

Dunque, se la materia dei rifiuti rientra nella materia della tutela ambientale, se la materia della tutela ambientale e di esclusiva competenza statale, la competenza per l'attuazione delle direttive comunitarie "appartiene inequivocabilmente allo Stato e non sono ammesse iniziative delle Regioni di regolamentare nel proprio ambito territoriale la materia, ispirandosi ad una direttiva non ancora recepita per i rifiuti"

Per quanto riguarda la necessità di esperire la procedura di VIA, questa è rimessa dalla normativa comunitaria, per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale (direttiva 85/337) a valutazioni caso per caso o alla fissazione di soglie, pur nell'ambito del principio di inderogabilità, da parte del legislatore nazionale, dell'obbligo di VIA, la giurisprudenza comunitaria rimette alla normativa interna, per certe materie, l'individuazione delle soglie.

E per effetto delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del 2008, l'effettuazione della VIA è ora subordinata, anziché alla determinazione di soglie, allo svolgimento di un subprocedimento preventivo volto alla verifica dell'assoggettabilità dell'opera alla VIA medesimo.
Comunque l'obbligo di sottoporre il progetto alla procedura di VIA, o, nei casi previsti, alla preliminare verifica di assoggettabilità alla VIA, attiene al valore della tutela ambientale ( cosi come si afferma nella sentenze n. 225 e n. 234 del 2009), che, "nella disciplina statale, costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, livello di tutela uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale". E la disciplina statale uniforme non consente di introdurre, a livello regionale, limiti quantitativi all'applicabilità della disciplina, "anche se giustificati dalla ritenuta minor rilevanza dell'intervento configurato o dal carattere tecnico dello stesso".

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