[26/03/2010] News

Green economy, energia e cambiamenti climatici (2)

La green economy - è fondamentale sottolinearlo - è la risposta ai drammatici sconvolgimenti climatici in atto. Per anni molti tecnici e scienziati hanno negato la causa antropica, nonostante il fabbisogno energetico mondiale sia quadruplicato negli ultimi cinquant'anni, con una crescita esponenziale del peso dei combustibili fossili. La stessa Scienza del Clima aveva difficoltà ad ammettere che un fenomeno che aveva sede nell'atmosfera - il global warming - potesse giocare un ruolo significativo nelle variazioni del clima.

Le ricerche sul campo e gli studi condotti negli anni novanta hanno però profondamente modificato questo punto di vista scientifico. Al punto che le Accademie delle Scienze dei Paesi del G8 più quelle di Cina India Brasile e Sud Africa si sono rivolte direttamente ai G8 di Gleeneagles (2005) e S.Pietroburgo (2006), con degli statement che attestavano la causa antropica dei cambiamenti climatici e sottolineavano il link energia/cambiamenti climatici come quello da affrontare con un'azione immediata (prompt action).

Questi appelli della comunità scientifica internazionale sono stati pressoché ignorati dai media dei paesi del Mediterraneo, ma hanno invece avuto un eco grandissima in quelli anglosassoni e un forte riflesso politico: poco dopo lo statement di S.Pietroburgo, Nicholas Stern consegna a Tony Blair il famoso rapporto nel quale si quantificano in termine di Pil i possibili danni economici e sociali derivanti dai cambiamenti climatici; a dicembre 2006 esce il decalogo della Ue per il risparmio energetico e nel marzo 2007 Angela Merkel, allora presidente della Commissione Ue, lancia i tre 20% con una mediazione di altissimo livello, che supera la ritrosia dei nuovi inquilini dell'Est europeo.

Da allora la realtà del passaggio dalla stabilità all'instabilità climatica e delle temute conseguenze ha prodotto un'incredibile accelerazione in tutto il mondo, con il varo delle politiche energetiche ed economiche prima accennate, e con una consapevolezza crescente della gravità della situazione. Al punto che il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, difficilmente sospettabile di estremismo, così si rivolge ai capi di governo di tutto il mondo riuniti nel settembre scorso al palazzo dell'Onu a New York, in preparazione di COP-15: «Il clima sta cambiando più velocemente di quanto si prevedesse anche solo due anni fa. Continuare a comportarci come se niente fosse equivale a rendere inevitabile una trasformazione pericolosa, forse catastrofica del clima nel corso di questo secolo».

Ma come si incrocia la green economy con la crisi economica che ha scosso tutto il mondo dopo lo scoppio devastante nel 2008 della bolla finanziaria? «Forse il peggio è dietro di noi, ma l'edilizia non tira, con tutto quell'invenduto che ha sulle spalle soprattutto in America, e non riparte l'auto, che appena ora sta riportando a casa le ossa dopo una grande crisi mondiale», osservano gli economisti a proposito dei due settori che valutano come volani della ripresa mondiale. Scuotono la testa e pronosticano ancora qualche anno duro per potersi riportare faticosamente a livelli vicini a quelli di prima della crisi.

La litania della ripresa dei consumi che ridia fiato all'economia, recitata con compunta speranza a destra e a sinistra un po'in tutto il mondo, oggi mostra più che mai la corda. Si va a scontrare oltre tutto con la scarsissima propensione al consumo dei tradizionali beni durevoli da parte dei risparmiatori, cui la crisi economica lascia pochi soldi e molta giustificata paura di una finanza in mano ad avidi malfattori; premiati, in nome delle banche troppo grandi per poter fallire, con colossali trasferimenti di denaro pubblico. Al punto che Obama ha dovuto fare la voce grossa con qualcuno dei più impudenti pescecani per non disattendere le promesse elettorali; ma il sistema della finanza riscuote in media dal cittadino occidentale "fiducia zero".

Sembra un circolo vizioso e il Nobel Joseph Stiglitz suggerisce per uscirne, meno innovativo del solito, un ruolo un po' generico della finanza pubblica, incoraggiata a non sacrificare sull'altare del rigore i conati di una qualche ripresa. Ma allora, se la finanza pubblica può essere utilizzata per indurre comportamenti virtuosi a livello mondiale, vale la pena di insistere - sono ormai quasi da dieci anni - sugli effetti indotti da un colossale progetto e da un comparabile piano di investimenti Ue - davvero comunitari e non di concorrenza interna, come in qualche modo è Desertec - per indirizzare e supportare imprese che "raccolgano"/ /il sole del Sahara.

Un tale progetto rappresenterebbe una perturbazione della finanza e dell'economia mondiale - enorme e positiva, come sostengono molti economisti - in grado di correggere, con un indirizzo innovativo, una gigantesca distorsione: la Cina trasferisce nelle casse Usa, il paese più indebitato del mondo, una parte rilevante di quei due terzi del risparmio mondiale che vi affluiscono. In questo modo è arrivata a possedere almeno un quinto del patrimonio immobiliare americano, ma quanto ne sono contenti quel miliardo di contadini, minatori e operai che non vivono certo la vita della borghesia e dei nuovi ricchi di Shanghai?

In secondo luogo una tale iniziativa fornirebbe indubbi vantaggi interni alle economie dei paesi impegnati e formidabili basi all'innovazione tecnologica; soprattutto, potrebbe dare - tramite progetti condivisi dall'altra sponda del Mediterraneo - energia, acqua e cibo per alleviare le condizioni inaccettabili di tanti popoli africani. Una politica cioè antagonista a quella della spoliazione delle loro risorse e alle nuove forme di colonialismo, nelle quali anche la Cina si sta muovendo alla grande.

E darebbe alla Unione Europea un primato al tempo stesso fattuale ed etico: un approccio più sostenibile all'economia, una mobilitazione di risorse e intelligenze per far fronte a quella che rischia di essere una questione "di specie": i cambiamenti climatici.

Che fare nei paesi in cui la crisi economica si manifesta in modo più grave, magari perché per troppo tempo è stata artificiosamente occultata con cifre truccate?

E' arrivato il momento in cui tutti i centri di spesa pubblica, non solo il governo, indichino delle direzioni precise a cittadini, investitori, imprese: una pioggia indifferenziata di tagli o di aiuti avrebbe, nel contesto descritto, esiti negativi se non disastrosi. Oggi però, quando il fondo del barile è stato raschiato, la regola per tutti, a livello regionale o globale, è quella di fissare delle priorità rigorose per la finanza pubblica.

Quali obiettivi selezionare allora?

Produzione e utilizzo di beni durevoli sostenibili/, /come sono la quasi totalità dei beni della green economy, in media meno onerosi per chi acquista di quelli tradizionali. Incentivati un po' in tutto il mondo, come anche l'automobile, il loro mercato ha avuto, al contrario dell'auto, una crescita esponenziale anche durante la crisi; e sono diventati sempre più familiari col sistema creditizio. Inoltre questi beni, poiché coniugano morale e utilità -- basti pensare all'umile pannello solare che sostituisce un combustibile fossile -- possono motivare il consumatore, oggi sempre più in sintonia con la battaglia per far fronte alla crisi ambientale; una funzione "didattica" del consumo, in una prospettiva di evoluzione razionale della "preferenza", di stili di vita più sobri.

L'altra leva è l'investimento pubblico per ampliare lo spazio di quel mercato nel quale il valore d'uso conta più del valore di scambio: esso è già popolato da una miriade di associazioni senza fini di lucro e di soggetti per i quali servizi sociali, attività culturali, produzione e commercio equo e solidale costituiscono lavoro e coesione sociale. Una politica economica down-top che trova i suoi protagonisti in grado di valorizzare le risorse e le reti locali.

Insomma, i tre 20% europei possono suggerire il percorso più adeguato alle possibilità, alle vocazioni storico-economiche, alle culture di ogni paese: un percorso che, anche nella crisi, non perde l'orientamento della sostenibilità. Che assume la responsabilità di non rubare futuro alle generazioni che verranno, non rubandolo alla Terra.

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