[15/03/2010] News

Slow economy di Federico Rampini

Premesso che è sempre piacevolissimo leggere i resoconti di giornalisti come Federico Rampini, il suo ultimo libro Slow Economy è insieme una delusione e un arricchimento culturale. La grande capacità affabulatrice di Rampini infatti accompagna tutta la parte centrale del libro raccontando cosa sono oggi quelle tigri asiatiche (Cina e India, ma anche Vietnam e in parte Cambogia), che nell'immaginario collettivo occidentale sono rimaste quasi vetrificate in stereotipi storici o addirittura cinematografici. Racconta i cambiamenti, profondi, indotti dal modello di fast economy occidentale che ha creato Disneyland teoretiche in Tibet e ha trasformato il Mekong in una grande autostrada di merci, rifiuti e a farne pubblicità e racconta il punto di vista degli altri, soprattutto dei cinesi e del loro modo di caratterizzare noi occidentali.

Tutta questa parte centrale nel libro di Rampini è poi incorniciata da una premessa (non formale) e da una conclusione, entrambe fortemente economicistiche, dove Rampini prova a giustificare il suo titolo e soprattutto il concetto di slow economy, rispolverando l'ormai collaudata (ma non per questo finora adottata in modo cogente da alcun Paese che abbia un peso economico significativo) fotografia della fallacia del prodotto interno lordo. Quindi almeno dal nostro punto di vista appare un po' riduttivo limitare a queste due parti le riflessioni sul concetto di slow economy, un concetto piuttosto vago, almeno come quelli (piuttosto affini se non sovrapponibili) di decrescita e se vogliamo, di economia ecologica, tanto caro al nostro giornale, pur rimanendo consapevoli che il cambio di paradigma verso la sostenibilità si realizzerà soltanto quando (se) l'economia non avrà più bisogno di aggettivi, e tornerà a basarsi sui limiti fisici del nostro pianeta e delle risorse materiali che possiede.

Non può quindi stupirci ma neppure esaltarci l'ennesima glorificazione della ricerca di un'alternativa al pil: importante certo, indispensabile, ma non sufficiente. In questo libro infatti ci interroghiamo sul pil e sul suo senso, applaudiamo giustamente Sarkozy che incaricando Stiglitz di studiare un'alternativa al pil disse "ciò che noi misuriamo influenza le nostre azioni se usiamo gli indicatori sbaglia tori, ci sforzeremo di raggiungere obiettivi altrettanto sbagliati", ma in realtà riscopriamo cose che sapevamo già, come i principi della termodinamica oppure la teoria dei ritorni decrescenti: l'energia costa sempre più perché è sempre più costoso estrarla (ritorni decrescenti sull'energia impiegata per estrarre energia), le materie prime sono sempre più costose perché sono sempre più diluite e l'energia per estrarli più costosa (ritorni decrescenti di estrazione), ma perfino i costi (economici ma soprattutto ambientali) per smaltire materie prime e residui delle varie lavorazioni sono cresciuti (ritorni decrescenti di smaltimento).

Tutto questo, salvo ovviamente le derive dettate dalle speculazioni e in generale dalla finanziarizzazione dell'economia, semplicemente perché a un certo punto si arriva a toccare dei limiti, i limiti fisici dell'ambiente in cui vive la gente.

Tornando al libro di Rampini, sembra che esso sia stato scritto in momenti diversi, ma senza dubbio le conclusioni sono le più recenti e tendono a sconfessare l'ottimismo con cui l'autore ha rappresentato i capitoli precedenti: "la velocità con cui Wall Street è tornata a praticare i vecchi vizi, (...) passata la grande paura le cinque maggiori banche nel settembre 2009 hanno riservato 61bmiliardi di dollari di gratifiche per i propri manager e trader, (...) l'insieme dei titoli derivati - ad alto rischio - detenuti dalle banche americane nel 2009 ha raggiunto i 14600 miliardi di dollari, il triplo rispetto alo 2006". Insomma tutto come prima e la conclusione che "la grande assente è la riforma delle regole"....

Le prospettive per la slow economy sono quindi tutt'altro che buone, affidate in un primo momento a una sorta di G2 che traghetterà il mondo verso un sistema sempre più sino centrico o quantomento sino-indocentrico: "è il ritorno del baricentro mondiale nelle stesse due nazioni che furono per molti secoli più avanzate di noi" scrive l'autore (e lo stesso concetto è oggi nell'editoriale di Fubini su Corriere economia. La vecchia Europa tagliata fuori fin da ora? Secondo Rampini il suo ruolo resterà fondamentale perché Pechino ad esempio guarda e guarderà per forza "ai sistemi previdenziali della vecchia europa, cioè l'unico angolo del mondo dove qualche esperimento di socialismo si è realizzato senza gulag e società civili". Ma prima è necessario contabilizzarlo il welfare, insieme al benessere e alla qualità dell'ambiente in cui viviamo.

 

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