[19/02/2010] News

Climategate: la storia del bieco Phil che "falsificò i dati climatici"

FIRENZE. A leggere ciò che una certa stampa ha scritto, in questi mesi, sul caso climategate, sembra davvero che anche in molti intellettuali - e non solo in chi partecipa ad ignoranti  discussioni da bar - sia radicata la convinzione che il mondo sia etero-diretto da una potentissima Spectre ambientale e climatica.

Sembra cioè che davvero molti credano che le incongruenze evidenziate nelle scorse settimane in alcune parti del 4° rapporto Ipcc, e la stessa vicenda del climategate, indichino non la necessità di una migliore scienza e soprattutto di una migliore comunicazione di essa, ma che dette incongruenze siano la prova provata che i principali centri di ricerca climatologica del mondo truccano allegramente i dati climatici, al fine di dimostrare un falso riscaldamento, o una falsa influenza antropica, o una falsa necessità di una riconversione ecologica dell'economia globale che vada al di là del "semplice" global warming.

Viene contemporaneamente da ridere e da piangere, insomma: sembra cioè che il peer-review e lo stesso metodo scientifico non esistano, così come sembra che venga dimenticato (o meglio: così come è ovvio che venga artatamente omesso da chi cerca di indurre l'opinione pubblica a credere a queste bufale complottiste) che le analisi sulle temperature globali non sono prodotte né da un uomo solo, né tantomeno da un solo centro di ricerca. Ed è ovvio che non sia così: ad esempio, il grafico presente nella parte inferiore dell'immagine, che è stato pubblicato dalla World meteorological organisation, è stato costruito a partire dai dati provenienti dai tre principali database climatici: quello della Cru inglese, quello del centro di studi Goddard (Giss) della Nasa, e il database del National climatic data center (Ncdc) della Noaa.

E questa pluralità di fonti è ovviamente presa in considerazione dalla Wmo per ottenere, tramite il confronto di più fonti, dati il più possibile oggettivi e autorevoli sulle serie climatiche storiche, serie che naturalmente non possono godere della stessa oggettività rispetto a dati rilevati quando l'era informatica era già entrata nel vivo.

Insomma, che la vicenda delle mail rubate alla Cru e gli errori dell'Ipcc abbiano evidenziato delle notevoli carenze comunicative, è vero. Che essa abbia indicato anche la necessità di una migliore scienza climatica e di una più attenta revisione tra pari, è vero. Che, però, si sia dimostrato che esiste il "grande complotto climatico" è veramente la bufala del secolo.

Comunque sia, se effettive forzature - anche di impronta "scientifica" - da parte dei ricercatori abbiano avuto luogo nella vicenda-Climategate lo potrà stabilire solo l'inchiesta indipendente che, indetta già in dicembre, solo in questi giorni sta muovendo i suoi primi passi concreti. Se, infatti, il comportamento dell'altro climatologo di spicco coinvolto nella vicenda (l'americano Mann) è stato giudicato limpido sotto il profilo scientifico dall'inchiesta compiuta dall'università della Pennsylvania (vedi link in fondo all'articolo), ancora non si può definire in via ufficiale se le azioni di Phil Jones  siano state altrettanto caratterizzate dal necessario rigore scientifico.

I dubbi sull'operato di Jones sono stati fin da subito evidenti: in alcune mail presenti nel carniere di quelle rubate, il capo della Cru lamentava la petulante insistenza di alcuni cittadini nell'appellarsi al Freedom of information act (Foia) per ottenere dalla Cru dati climatici ancora non pubblicati riguardo ad alcune stazioni sparse per il pianeta: a quanto si può leggere nelle mail incriminate, Jones sosteneva che le richieste avanzate dai cittadini non erano tanto finalizzate ad analizzare il clima, ma prevalentemente a mettere in discussione l'attendibilità della Cru e della scienza climatica stessa.

Di conseguenza, a quanto sembra (ma sarà solo l'inchiesta in corso a dare le necessarie certezze a riguardo) Jones sostenne che piuttosto che dare i dati richiesti in pasto agli "squali" preferiva cancellarli per sempre dagli hard-disk.

Non è dato sapere, però, se davvero Jones e/o i suoi colleghi misero effettivamente in atto le intenzioni espresse in un momento di sconforto. Appare improbabile, certo, che i dati in questione - che peraltro sono stati resi pubblici nei primi giorni di febbraio - siano stati effettivamente cancellati, ma non è impossibile che alcune forzature ci siano state, e quindi ben venga l'inchiesta che - speriamo - chiarirà i punti oscuri della vicenda. Inoltre, lo stesso Jones ha recentemente ammesso in un'intervista a "Nature" di aver perso i contatti e i documenti necessari per ri-analizzare alcuni dati sull'impatto dell'urbanizzazione cinese sul clima, dati che indicavano un certo tasso di Gw in estremo oriente e che sono stati recentemente messi in dubbio.

Ma nel marasma informativo che si è creato sul climategate, oggi la vicenda viene narrata, da alcuni media sia italiani sia esteri, in termini di "Jones ha perso i dati sul riscaldamento globale", naturalmente per dare a intendere che l'ha fatto di proposito perché fa parte del grande complotto ordito dalla lobby ambientalista di cui sopra.

E se è ridicolo, come detto, continuare a cercare di far intendere che ci sia un "grande complotto climatico", è comunque indubitabile anche che, se l'inchiesta dovesse confermare i dubbi sull'operato di Jones, ci troveremmo di fronte ad un atteggiamento che è ben al di sotto del rigore scientifico che è richiesto ad una delle figure più autorevoli dell'intera climatologia mondiale.

 

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