[11/02/2010] News

Post-Copenhagen: clima rovente tra Usa e Basic

LIVORNO. Todd Stern, l'inviato speciale statunitense per il cambiamento climatico, ha partecipato a Washington. al seminario "After Copenhagen An Update on International Climate Change Negotiations" organizzato dal think-tank filo-democratico Center for American Progress. Quello di Stern è stato il suo primo discorso pubblico dal 31 gennaio, la data di scadenza fissata dall'Unfccc perché i Paesi del mondo presentassero i loro obiettivi di mitigazione e le azioni per la riduzione delle emissioni, come previsto dall'accordo di Copenaghen. Stern non è stato per niente diplomatico, probabilmente influenzato dal brutto clima delle relazioni sino-statunitensi (da Google al Dalai Lama, da Taiwan agli scambi commerciali) ed ha rivelato che l'Accordo di Copenhagen è stato il frutto delle pressioni Usa sul gruppo del Basic (Brasile,Sudafrica, India, Cina) una pressione che continua su tutti i Paesi emergenti, perché altrimenti, secondo lui, l'Accordo di Copenhagen rischia di essere «nato morto».

Stern ha descritto le posizioni prese nel post-Copenhagen dai 4 Paesi del Basic come «Un po' ambigue». Secondo lui i grandi Paesi emergenti in realtà vogliono «limitare l'impatto» dell'accordo. Comunque l'inviato Usa per il clima è abbastanza fiducioso: «Credo che firmeranno l'accordo perché il non farlo avrebbe conseguenze molto gravi, in una parola, lasciare che l'accordo sia nato morto, sarebbe in contrasto con l'assenso chiaramente espresso dai loro leader all'Accordo di Copenaghen». Stern spera che il prossimo summit mondiale sul clima dell'Unfccc a Cancun, approvi e completi un nuovo accordo globale, ma non ha voluto fare previsioni perché «Non voglio cadere nella trappola di dire che se non lo avremo, sarà un fallimento».

Il problema è sempre quello: i Paesi in via di sviluppo chiedono a quelli sviluppati, viste le loro responsabilità "storiche" riguardo all'inquinamento del pianeta, di prendersi obblighi di riduzione dei gas serra, mentre loro accettano solo impegni volontari, anche quelli che sono ormai potenze economiche e industriali come quelli del Basic. Una posizione che gli Usa digeriscono male. Stern ha detto che «Gli Stati Uniti sono pronti a fare la loro parte, ma la necessità di portare tutti i maggiori emettitori all'interno di un regime di impegni per il clima è chiaro, questo è semplicemente l'unico modo per scongiurare la crisi».

Gli americani sono abbastanza irritati con i Cinesi e con gli altri Paesi Basic  perché non sembrano voler riconoscere che la firma di Obama sotto l'Accordo di Copenhagen è un segnale di cambiamento rispetto alla presidenza eco-scettica di George W. Bush che era un nemico mortale del Protocollo di Kyoto. Inoltre l'ambiguità cinese, che prima ha sollecitato l'accordo ed ora cerca di ricucire con il G77, l'Alliance of Small Island States e il Gruppo Africano sbandierando le "contraddizioni" Usa, sta mettendo fortemente in difficoltà Barack Obama ed i democratici, che stanno ancora cercando di superare l'opposizione dei repubblicani (e di qualche democratico) all'approvazione del Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di CO2.

Gli statunitensi sembrano quasi pentiti di aver negoziato l'Accordo di Copenhagen con i cinesi e gli altri Paesi emergenti, ora ammettono che non soddisfa le loro speranze e Stern ha addirittura definito senza mezzi termini il vertice nella capitale danese «un evento caotico, ringhioso e grave, che non ha nemmeno fornito qualche alimento per le linee future e per tutto il resto». Poi ha  accusato quelli che ha chiamato sprezzantemente "rabble- rousers" (arruffapopoli o agitatori) di aver cercato di far fallire la Cop 15 di Copenhagen. Stern non fa nomi, ma è evidente che ce l'ha con quei Paesi in via di sviluppo (soprattutto Bolivia, Cuba, Sudan e Venezuela) che hanno duramente criticato l'Accordo. Nel mirino c'è soprattutto il Sudan, che a Copenhagen guidava il G77 e che è in più che ottimi rapporti con la Cina, che ha definito le politiche degli Stati industrializzati occidentali un Olocausto.

Nel seminario del Center for American Progress Stern non si è sottratto ad un giudizio sul cosiddetto "climate gate" e sull'infortunio in cui è incorso l'Ipcc prendendo per buoni dati errati sulla velocità di scioglimento dei ghiacciai dell'Himalaya. Secondo l'inviato speciale sul clima di Obama, «Bisogna aprire una discussione scientifica, ma ho pochi dubbi sul fatto che l'attività antropica stia riscaldando il pianeta. Ovviamente non è utile che si commettano degli errori, ma la stragrande maggioranza delle prove non è affatto turbata da questi eventi».

Oggi il Center for American Progress avrebbe dovuto organizzare un'altra iniziativa, "The Global Implications of Climate Migration", per completare quella che ha ospitato Stern, ma è stata rinviata a causa della "tempesta perfetta" di neve e gelo che ha colpito la capitale americana, un evento meteorologico estremo che però giustifica quanto scritto nella presentazione dell'iniziativa: «È inevitabile che il riscaldamento globale intensifichi gli uragani, aggravi  la siccità, e si aggiunga alla carenza di risorse, avremo bisogno di prepararci per rispondere a condizioni estreme e questo comprende la migrazione umana. Alcune stime suggeriscono che ben 200 milioni di persone potrebbero diventare i migranti climatici  entro il 2050, e in alcuni casi, la migrazione e gli hot spot climatici  si sovrappongono in regioni già volatili ed instabili, dove una sostanziosa migrazione potrebbe facilmente dar luogo a conflitti. Ciò è particolarmente vero per alcune delle comunità più vulnerabili del mondo, che sono esposte a subire una quota sproporzionata degli impatti. E' importante integrare le strategie di adattamento e prendere in considerazione il cambiamento climatico all'interno delle strategie per lo sviluppo e dell'assistenza straniera E' essenziale che i decisori politici comprendano i rischi del cambiamento climatico ed implementino le politiche per invertire queste tendenze preoccupanti».

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