[23/07/2009] News

Riserve per la pesca per proteggere pił mare

LIVORNO. PlosOne pubblica lo studio "Beyond Marine Reserves: Exploring the Approach of Selecting Areas where Fishing Is Permitted, Rather than Prohibited" nel quale due ricercatrici, Natalie C. Ban del Project seahorse del Fisheries centre dell'università canadese della British Columbia, e Amanda C. J. Vincent dell'Australian research council centre of excellence for coral reef studies dell'università australiana  James Cook  del Queensland, affrontano il tema delle Aree marine protette (Amp), o meglio delle Riserve marine, da un punto di vista innovativo che ribalta uno dei presupposti di partenza della loro istituzione e della gestione del mare in generale. 

Le ricercatrici partono da un dato di fatto indiscutibile: «Le popolazioni  marine hanno registrato un calo ad un tasso preoccupante, dovuto in gran parte alla pressione di pesca. La sfida è quella di garantire un futuro per la vita marina, minimizzando allo stesso tempo  l'impatto sulla comunità di pescatori e sulla pesca». Ma invece di selezionare le zone in cui la pesca è vietata, come di solito avviene nella gestione delle aree, lo studio «valuta il concetto di designare le zone in cui la pesca è consentita - spiegano Ban e Vincent -  Abbiamo utilizzato le statistiche di cattura territoriali di tredici flotte di pesca commerciale sulla costa occidentale del Canada per determinare la superficie minima che sarebbe necessaria per mantenere un target pre-assegnato con l'attuale percentuale di catture. Abbiamo scoperto che piccole riduzioni delle rese del settore della pesca, se strategicamente allocate, potrebbero dare come risultato vaste aree "unfished" che sono rappresentative della regione bio-fisica e dei tipi di habitat e che hanno il potenziale di realizzare notevoli vantaggi per la conservazione».

Quindi le Aree marine protette verrebbero create attraverso la selezione e gestione di zone di pesca che trasformerebbero in Amp  tutto il resto del mare. Insomma: "riserve" di pesca per realizzare più "riserve" marine.

«Il nostro approccio alla selezione delle zone di pesca invece che di riserva potrebbe contribuire a riorientare il dibattito sul rispetto dei valori che la società pone in materia di conservazione e di sfruttamento  all'interno di un quadro in cui ci sarebbe molto da guadagnare e poco da perdere - scrivono le due ricercatrici su PlosOne - Le nostre idee sono destinate a promuovere il dibattito circa l'attuale status quo nella gestione della pesca, piuttosto che fornire una soluzione definitiva».

Lo studio si pone di fronte ad un dilemma: gli oceani hanno subito un calo drammatico della loro biomassa e della biodiversità faunistica e questo è in gran parte dovuto alle attività di pesca che costituiscono la più grande pressione di origine umana sulla vita marina; le Riserve marine (no-fishing zones) vengono indicate come un potente strumento, ma non certo come la panacea, per arrestare il declino eccessivo degli stock di pesci ed  invertebrati. «L'evidenza che la biomassa, l'abbondanza e la dimensione media degli organismi sfruttati aumentano all'interno dei loro confini ha portato alla richiesta internazionale di istituire Aree marine protette (incluse le riserve) da parte della Convention on biological diversity e del World summit on sustainable development - spiegano le ricercatrici - Tuttavia, e nonostante il consenso sul valore delle riserve marine, queste vengono realizzate e implementate troppo lentamente per raggiungere gli obiettivi concordati per la protezione marina. Il loro impatto sulla pesca resta incerto, e I benefici per I pescatori variano a seconda dei casi».

L'approccio delle due scienziate è molto simile a quello della bistrattata normativa italiana sulle aree marine protette che prevede aree marine protette con piccole zone di riserva integrale (A - unfished) e zone B e C dove la pesca locale è consentita e gestita, ma va oltre: con la loro proposta, al di fuori delle zone di riserva di pesca gestita, lo sforzo di pesca è praticamente nullo.  

«Data la lenta realizzazione delle riserve marine e dei relativi obiettivi internazionali, affrontiamo il problema ripartendo dall'inizio - affermano Ban e Vincent - Noi abbracciamo la sfida di presumere che l'intero oceano sia inizialmente protetto dalla pesca, piuttosto che aperto alla pesca. Ad oggi, lo sfruttamento della pesca é esplicitamente escluso (cioè le aree sono protette) in meno dell'1% degli oceani. Tenendo conto della biodiversità e della difficile  sfida di gestire le attività di pesca con dati limitati, é sempre più vitale esplorare la strada per limitare spazialmente la pesca rispettando i suoi contributi socioeconomici e nutrizionali. Queste restrizioni dovrebbero anche, idealmente, rispettare i criteri di systematic conservation planning di rappresentanza e permanenza».

Il concetto di base è quello di considerare l'approccio di selezione delle aree di pesca come un "costo" da confrontare con le perdite economiche per le attività di pesca derivanti dalla presenza di una riserva marina di selezione. «Il "Costo" in questo contesto si riferisce al costo socio-economico o politico di aggiungere un'area di riserva marina - scrivono le ricercatrici - L'approccio tipico riserve marine di selezione è quello di assicurare la rappresentatività della biodiversità, minimizzando i costi della pesca». Trattando la pesca come un costo, le riserve marine di selezione richiedono l'adozione di strumenti diversificati come la valutazione delle medie delle catture e lo sforzo di pesca per unità in ciascuna area.

«Con il "targeting fisheries" invece di trattarle come un costo abbiamo selezionato le regioni di pesca più produttive per ridurre al minimo le aree di pesca - spiegano Ban e Vincent su PlosOne-  Il principale vantaggio di questo approccio è che ogni tipo di pesca può essere selezionato singolarmente, garantendo così che tutte le attività di pesca siano in grado di continuare».

 

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