[17/12/2009] News

Copenhagen: alla ricerca del pensiero strategico

LIVORNO. Non abbiamo, per cultura (o per ignoranza), la stessa sicumera con la quale Carlo Carboni sul Sole24Ore riesce ad assegnare la leadership del pensiero strategico agli Usa, dopo averla tolta all'Europa. Di certo incrociando quanto lui sostiene sul Sole24Ore di oggi; quanto dice Hillary Clinton sulla crescita sostenibile sempre sul quotidiano di Confindustria;  e quanto sta accadendo a Copenhagen, non gli si può dare torto (almeno) su un concetto: «In Italia come in Europa, l'eclissi di un pensiero strategico si accompagna all'incapacità delle classi dirigenti nazionali di pensare e agire nel proprio interesse e, al tempo stesso, per fini universalistici. Tuttavia, limitarsi alla gestione dell'esistente, senza alzare mai lo sguardo, equivale a gestire il proprio declino senza accorgersene».

Alla vigilia del summit sul clima era già evidente che arrivare ad un accordo condiviso e vincolante non sarebbe stata una passeggiata, ma rispetto al passato, il cambio di presidenza alla Casa Bianca sembrava la chiave per un possibile successo. Tutti insomma scommettevamo (se non altro per non apparire come le solite Cassandre!)  sulle capacità diplomatiche di Obama e sulla sua lungimiranza rispetto alle questioni economiche-ecologiche.

Ma lo scontro tra le ragioni dei ricchi (vecchi e nuovi) e quelle dei poveri (in aumento) sta prendendo il sopravvento e - di fronte alla crisi economico-ecologica-sociale ed alimentare - un fallimento del summit potrebbe mettere- almeno per un po'- una pietra tombale sui pensieri lunghi-strategici, senza distinzione geografica. Altro che governance globale: ognuno farà per sé! Altro che strategia unica e unitaria per il pianeta!. Senza considerare che a Copenhagen si parla soltanto di una parte dei problemi che assillano il pianeta visto che sono fuori discussione (almeno direttamente) i flussi di materia, ovvero l'altra gamba della sostenibilità. Di cui prima o poi i leader, se mai avranno come orizzonte la sostenibilità ambientale e sociale, dovranno farsi carico, per non erodere in maniera irreversibile le risorse del pianeta. Un'economia a più basse emissioni è certamente fondamentale, però se non cambia il paradigma della crescita tout court - come bene (o male) evidenzia la decisione della Cina di esportare in patria la festa del Natale per aumentare i consumi - non avremo assicurato granché alle future generazioni in termini di risorse naturali. Non vogliamo aggiungere problemi a una già difficilissima situazione, né fare del benaltrismo, ma visto che si parla di pensieri strategici è giusto non perdere di vista la complessità del ragionamento. E' per questo che arrivare ad un accordo sul clima avrebbe una doppia valenza: per l'accordo in sé e per la strada che in qualche modo spianerebbe nell'ottica di un modello economico diverso dall'attuale e che abbia come elemento dirimente quello di ridurre al minimo i consumi di energia e di materia.

Dice sempre Carboni che «Le cause del declino del pensiero strategico sono molto complesse e andrebbero correlate con una fenomenologia culturale e strutturale di lungo periodo: l'astinenza dalle grandi visioni ideologiche che dura almeno da trent'anni; i nuovi ritmi di vita - schiacciati sul presente - imposti dalle tecnologie interconnettive del "tempo reale"; una classe politica sempre più trasfigurata dalla società dello spettacolo e dei desideri; l'espansione delle democrazie di mercato» ed è infatti da qui che si dovrebbe ripartire, ovvero su una riflessione del modello attuale, non solo economico ma anche culturale. Ma ci pare che anche l'analisi del contesto, da parte dei leader mondiali,  sia piuttosto lontana dal mettere in discussione concretamente il modello economico (e ancor meno quello culturale) che ci ha portati alle crisi in corso. Dunque ad essere ottimisti, in questa fase, si rischia di fare la figura dei fessi, ma un accordo concreto a Copenhagen potrebbe invece far rinascere in tutti almeno la speranza.

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