[30/11/2009] News

Paesi emergenti e Commonwealth, il copione di Copenhagen non è già scritto

LIVORNO. Sabato a Pechino si sono ritrovati i negoziatori climatici di Cina, India, Brasile e Sudafrica per mettere a punto una linea comune da tenere al summit di Copenhagen e si sono impegnati a  rafforzare i loro sforzi «Per arrivare a dei risultati positivi, ambiziosi ed equi durante la conferenza».

Dopo il vertice con Obama la Cina ha la necessità di distogliere da sé il sospetto di aver immolato sull'altare degli accordi con gli Usa gli interessi dei Paesi in via di sviluppo. Al summit hanno partecipato il ministro indiano all'ambiente, Jairam Ramesh, il consigliere del presidente brasiliano Lula, Marcel Fortuna Biato, e il ministro sudafricano all'ambiente, Buyelwa Sonjica e il  presidente sudanese del Gruppo dei 77, Lumumba Stanislaus Di-Aping, e tutti insieme hanno dichiarato: «Siamo pervenuti ad un consenso sostanziale su delle questioni importanti, quali lo stabilimento di un periodo di impegno facente seguito al Protocollo di Kyoto e la messa in opera di una cooperazione a lungo termine nella lotta al cambiamento climatico».

Secondo i Paesi emergenti del sud del mondo a Copenhagen dovranno essere ottenuti risultati che  «Riflettano i progressi già ottenuti nel quadro dell'Unfccc. I risultati della conferenza di Copenhagen dovranno tener conto dei particolari bisogni dei Paesi meno sviluppati, dei piccoli Paesi insulari in via di sviluppo e dei Paesi africani».

Il premier cinese Wen Jiabao ha confermato che gli obiettivi di riduzione dei gas serra della Cina sono «seri e formali» e ha detto che «La Cina affida una grande importanza alle sue consultazioni con l'India, il Brasile ed il Sudafrica e rafforzerà il suo coordinamento con il G77. Coopereremo con tutte le parti interessate per far ottenere dei risultati  ragionevoli e realizzabili durante la prossima conferenza delle nazioni unite sul cambiamento climatico a Copenhagen».

Paesi emergenti e G77 hanno convenuto che «I Paesi in via di sviluppo devono lavorare insieme per salvaguardare i loro interessi comuni, contribuire alla lotta al cambiamento climatico e a realizzare lo sviluppo sostenibile».

Che Copenhagen non sarà un rito certificatorio di accordi già presi emerge anche dalla dichiarazione di Porto of Spain dei Paesi del Commonwealth. Patrick Manning, il premier di Trinidad e Tobago, chiudendo il vertice dei Paesi dell'ex impero britannico, ha detto che il Commonwealth «ha messo l'accento sul cambiamento climatico e sulla prossima riunione patrocinata dall'Onu  dal 7 al 18 dicembre a Copenhagen. Sabato, durante la riunione, il primo ministro danese Lars Lokke Rasmussen, ha rilevato di aver potuto conoscere le opinioni delle piccole isole che sono le più vulnerabili al cambiamento climatico».

Il Commonwealth non é solo un nostalgico raggruppamento di Paesi dell'impero che fu, rappresenta 2 miliardi di persone, un miliardo dei quali in India e la potenza di riferimento, la Gran Bretagna, è in prima fila nell'impegno dell'Ue per ottenere un accordo vero a Copenhagen.

Il primo ministro neozelandese John Key ha invitato alla prudenza: «Non penso che ci sarà un consenso sull'accordo a Copenhagen senza finanziamenti». Ma ha aggiunto che la Nuova Zelanda è pronta a versare tra 10 e 50 milioni di dollari in un "Green Found" se verrà istituito.

Il comunicato finale del summit del Commonwealth, al quale hanno partecipato 49 Paesi e 34 Capi di Stato e di governo, chiede che «I piccoli Paesi insulari beneficino del 10% dei fondi di avvio perché l'aumento del livello del mare li mette in prima linea di fronte ad una catastrofe naturale».

La dichiarazione di Porto of Spain chiede anche azioni concrete contro il traffico d'armi e di esseri umani, la pirateria e il terrorismi, ma anche il sostegno al diritto a migrare, l'applicazione degli accordi sui diritti umani e sull'uguaglianza sessuale e per la sicurezza alimentare ed energetica.

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