[30/11/2009] News

Paesaggio educatore. Per una geopedagogia mediterranea

"Se il nostro tempo attenta alla vita del pianeta, se chi ha il potere non riesce a progettare un futuro compatibile con la sopravvivenza della specie e delle altre specie viventi, se ci sono decisioni o mancanza di decisioni che fanno male al paesaggio che abitiamo, l'educazione ha il dovere di fare qualcosa". Sta dentro questa affermazione lo spirito che nel suo ultimo saggio, "Paesaggio educatore. Per una geopedagogia mediterranea", guida Raniero Regni, docente di Pedagogia sociale presso la Facoltà di Scienze della formazione della Lumsa di Roma,
Paesaggio educatore che "non vuol dire abbandonarsi ad una specie di determinismo ambientale, ma affrontare il problema dei condizionamenti in maniera diversa".

Il tema del paesaggio e di come difenderlo è assai dibattuto. Il cosiddetto codice Urbani e il suo ultimo aggiornamento, in quanto legge che tutela il paesaggio e lo norma a tutt'oggi, non ha messo e non mette certo tutti d'accordo, ma in questo saggio l'asse della discussione è spostato quasi totalmente sulla funzione stessa del paesaggio. Che non è quella della cartolina, e neppure ha solo fini utilitaristici "pur rispondendo a problemi pratici". Piuttosto Regni si interroga su "che cosa sia oggi il paesaggio, quale ne sia il significato pedagogico, che cosa insegni e come possa essere insegnato". E di un cosa l'autore è sicuro: "Il paesaggio educatore in quanto tale, educa sempre (...) nella sua nuda evidenza. Impartisce una sua prima e fondamentale educazione implicita. Un paesaggio maestro dell'ascolto, di una cultura dell'ascolto, dell'armonia dell'uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare".

Regni interviene indirettamente, ma con forza, sul discutibile dibattito "bello-brutto" quale criterio di scelta in relazione proprio alle trasformazioni del paesaggio e se gli riconosciamo gli argomenti educativi (educare al bello appunto), troppo deficitaria è la parte dove cerca di stabilire i criteri di valutazione rispetto alle necessità dei territori stessi. Un paesaggio, certo, non è semplicemente il frutto del lavoro dell'uomo che lo muta nei secoli, ma oggi siamo di fronte ad un nuovo scenario. L'uomo ha talmente abusato delle risorse del pianete che, nell'impossibilità evidente di un ritorno al passato, non può esimersi dall'intervenire di nuovo sulla natura per sopravvivere.

A meno che non si pensi che la natura da sola rimetta tutto a posto comprese le risposte alle esigenze dell'uomo. Semplicemente pensando al potenziamento delle rinnovabili - quanto di meno impattante ci sia oggi per produrre energia - ogni giorno ci si scontra (dall'eolico, al solare, al fotovoltaico, alle biomasse, all'idroelettrico fino alla geotermia) con l'assenza di un criterio condiviso per la loro realizzazione in armonia con i territori e con chi li abita. L'eolico diventa un ecomostro anche dentro una discarica, violentatore di pianure, quanto di colline e dei mari, i pannelli solari sui tetti uno scempio e se poi si mette il naso sui rifiuti e sugli impianti a loro dedicati per trattamento e smaltimento la discussione diventa addirittura parossistica. Da notare che qualcuno vorrebbe dirimere tutto o quasi proprio sul concetto di bello o brutto, al che basta fare un rapido sondaggio sulle pale eoliche - belle o brutte appunto - per capire che ciò non basta.

Oppure pensare al centro di Barcellona, riconosciuta come una delle più belle città del mondo, che ospita quello che i giornali italiani chiamerebbero un ‘mega inceneritore' senza che nessuno abbia alcunché da ridere, e fare un paragone con le difficoltà di installare un impianto di compostaggio in periferia nel Belpaese... Serve decisamente un'educazione al bello, serve ancora di più la certezza che le opere che si fanno si fanno bene, ma serve anche un'educazione al bello e sostenibile. Il consumo di suolo è consumo di suolo anche se sopra ci si costruisce un agriturismo meraviglioso esteticamente con pannelli fotovoltaici invisibili e fitodepurazione. Così come una discarica non può certo essere peggiorata da tre pale eoliche.

Detto questo il libro merita di essere letto per la quantità infinita di link tra letteratura, filosofia, pedagogia ed ecologia che Regni fornisce a piene mani.
Il compromesso tra l'altro lo si può trovare in questa premessa dell'autore: "Il paesaggio, come le tradizioni o i beni naturali, è eredità di tempi lunghissimi che noi rischiamo di dilapidare in pochi decenni. Ogni bellezza dell'innovazione e dello sviluppo è tale perché, in ogni campo, ha l'agio di avvantaggiarsi di questo immenso patrimonio. Il rischio è di pensare che lo sviluppo e l'innovazione siano autonomi e autopropulsivi, che non debbano niente né al passato né a questo patrimonio stabile. Mentre il nuovo è tale solo su questo fondo di stabilità. Senza questa stabilità il nuovo è una follia. L'alternativa è una terra desolata, orfana della categoria del bello". Frase quest'ultima che noi potremmo tramutare così: L'alternativa è una terra insostenibile. O meglio ancora, l'alternativa non c'è.

Come dice Regni, infatti, il paesaggio "non è un pezzo di natura come museo compensatorio, ma deve essere un luogo di vita di una comunità, non un luogo muto che ha perso i legami con la vita, come sono diventati tanti posti che si trasformano in puri scenari dell'offerta turistica".

Che cos'è dunque il paesaggio nel suo profondo? Come sostiene Simmel, opportunamente citato da Regni, è che "l'autentico sentimento della natura nasce solo con l'epoca moderna; il paesaggio diventa possibile solo quando si sia lacerata l'unità della natura universale. Il sentimento profondo della natura è la risposta nostalgica e romantica alla sua perdita". Un po' come quando ci si accorge di aver amato davvero una persona esattamente nel momento che la si perde. E' molto umano, è un insegnamento che oggi già da bambini possiamo apprendere, ma è per questo che "l'antichità e il medioevo non avevano e non hanno espresso un senso del paesaggio". Così come "non c'è il paesaggio per il contadino, né per l'agronomo, né per lo stratega. Esso presuppone distanza e contemplazione". Contadini e agronomi, però, conoscevano per tradizione i limiti della terra che lavoravano e la loro opera dai contemplatori è stata poi vissuta come un'opera d'arte. Un'opera d'arte che non comprometteva il territorio. Non solo, l'uomo ha imparato anche ad amare le sue rovine perché "in esse l'opera dell'uomo torna ad essere un prodotto della natura. Al senso tragico e malinconico che pure le accompagna, alla tragedia del tempo che tutto divora e distrugge, si associa un senso di pace e di serenità, anche se si tratta di una necropoli".

Il paesaggio, sostiene sempre Regni, "ha uno statuto incerto, né prodotto culturale umano, né fenomeno naturale. Comporta un esperire che non è semplice capire ma è, allo stesso tempo, un agire e un patire". Ma riconoscere che l'uomo, in nome di una malintesa idea di sviluppo, sta distruggendo quello che di buono assieme alla natura ha prodotto nei secoli, non è sufficiente. Non è sufficiente neppure pensare che si possa spegnere un bottone e tornare a un passato che non c'è più. Regni cita giustamente la tesi di de Benoist sulla decrescita e sull'ecologismo in generale che "rischiamo di anteporre l'indignazione alla riflessione e di predicare, di avere troppa fiducia nella persuasione retorica. ‘L'appello all'economia economa, alla frugalità o alla semplicità volontaria è molto simpatico, ma oggi può ispirare solo comportamenti individuali'. E' necessaria una ‘pedagogia verde' che sia in grado di riscoprire (Malavasi) ‘la natura come interlocutore o partner della formazione umana', capace di tematizzare la sostenibilità educativa e di innestare la cittadinanza terrestre in una comunità planetaria".

Regni individua poi nel nostro paesaggio mediterraneo quello "capace forse di ispirare ancora una geopedagogia sociale, un modello di convivenza tra gli uomini". Tutto questo in un periodo, il postmoderno, dove è evidente "l'assenza delle grandi narrazioni". Ma "senza una narrazione soddisfacente che generi un senso di finalità e di continuità, senza il potere mitico e la sua storia di trascendenza, si genera un disorientamento psichico, una frenetica ricerca di qualcosa in cui credere o la rassegnata conclusione che non c'è niente da trovare. La storia dovrebbe ricordarci i nostri sogni migliori, e noi abbiamo bisogno di un sogno che ci aiuti ad andare avanti. Ma non solo quello della tecnologia. Perché la tecnologia oggi comporta molti rischi, uno fra tutti è quello di ‘teologizzarsi', perché se ieri era la teologia a dirci cosa fare, oggi è la tecnologia a stabilire la salvezza, ma una salvezza senza scopo, fatta solo di mezzi senza fini".

Siamo nel campo opposto della pedagogia delle catastrofi, siamo in quella appunto del paesaggio e della sostenibilità. Si tratta di capire se oggi la narrazione può essere la sostenibilità, se può essere quel fine. Noi crediamo di sì, perché se "l'educazione è un invito a desiderare il mondo e a desiderare di apprendere qualcosa di importante" che cosa c'è di più importante della sopravvivenza dell'uomo in armonia con il pianeta? I tempi imposti dai danni ambientali, rischiamo però di dare poco tempo alla rivoluzione pedagogica, costringendo (in modo positivo speriamo) l'attuale classe politica mondiale a fare scelte apparentemente anche impopolari che troveranno magari giustizia nei libri che racconteranno questi difficilissimi primi anni del 2000...gli anni in cui (è l'auspicio) ci salvammo e imparammo! 

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