[17/11/2009] News

La vulnerabilità del territorio italiano ai fenomeni franosi: un nuovo modello di valutazione

ROMA. Messina e Ischia insegnano: espressioni della forte fragilità del nostro territorio, una fragilità non solo  innata dovuta alle caratteristiche idrogeologiche del nostro Paese, ma risultato in primis di un'espansione urbana a macchia d'olio, senza regole, che ha caratterizzato gli ultimi 50 anni di sviluppo urbano e che fortemente incrementato il rischio collegato a fenomeni di frana in termini di gravità, frequenza e popolazione esposta.

Tra i fattori naturali che predispongono il nostro territorio a frane ed alluvioni, rientra senza dubbio la conformazione geologica e geomorfologica, caratterizzata da un'orografia giovane e da rilievi in via di sollevamento. Tuttavia il rischio idrogeologico è stato fortemente condizionato dall'azione dell'uomo e dalle continue modifiche del territorio che hanno, da un lato, incrementato la possibilità di accadimento dei fenomeni e, dall'altro, aumentato la presenza di beni e di persone nelle zone dove tali eventi erano possibili e si sono poi manifestati, a volte con effetti catastrofici.[1]

La definizione stessa di rischio (Rischio = pericolosità x vulnerabilità x valore) esprime il numero atteso di perdite di vite umane, di feriti, di danni a proprietà, di distruzione di attività economiche o di risorse naturali, dovuti ad un particolare evento dannoso. Il rischio di per sé non esiste dunque senza la presenza dell'uomo.

Le dimensioni del fenomeno vengono rese chiaramente da una panoramica di alcuni degli eventi che hanno interessato l'area italiana nell'ultimo secolo di storia: 5.400 alluvioni e 11.000 frane negli ultimi 80 anni, 70.000 persone coinvolte e 30.000 miliardi di danni negli ultimi 20 anni.[2]

Oltretutto sono da evidenziare le previste (e soprattutto attuali) implicazioni dei cambiamenti climatici nel Mediterraneo nell'ambito delle precipitazioni come dichiarate ultimamente dall'ISAC-CNR: "...In particolare al centro-sud, con la contemporanea tendenza all'aumento delle precipitazioni intense ed un maggiore rischio di eventi siccitosi in molte aree mediterranee. Un aumento di precipitazioni intense comporta peraltro un aumento del rischio di alluvioni, frane ed erosione dei suoli...".

Ci si chiede allora se si vuole aspettare il ripetersi di una Agrigento del 1966 in cui franò la parte occidentale della città causando oltre 5000 senza tetto per decidersi ad intervenire con misure serie e restrittive lungimiranti.

In seguito al disastro di Agrigento si varò la famosa "legge ponte". La "legge ponte" limitava le possibilità di edificazione nei comuni che non si erano dotati di strumenti urbanistici (il 90 per cento, allora, dei comuni italiani) e cercava di incentivare la formazione dei piani; per i comuni inadempienti era previsto l´intervento sostitutivo degli organi dello Stato. Si mostrò ad ogni modo un fallimento, in quanto durante il

dibattito parlamentare fu approvato un emendamento dei liberali che fece slittare di un anno la sua entrata in vigore: e così dal 1° settembre 1967 al 31 agosto 1968 l´Italia fu invasa da licenze edilizie, talvolta, in prossimità della scadenza della moratoria, istruite, esaminate, approvate e firmate in un solo giorno (un´indagine del Ministero dei lavori pubblici stabilì che in quei dodici mesi vennero rilasciate concessioni per 8 milioni e mezzo di vani, quasi il triplo della media annuale).[3]

Nonostante il fallimento causato dal suo ritardo nell'entrata a vigore, ha sicuramente rappresentato una svolta a lungo termine.

Ma si vuole davvero arrivare ad un'altra Agrigento?

Giovanni Astengo nel 2006 afferma "[...] Diventerà ad esempio evidente a tutti la necessità di dotare gli Enti, preposti all'attuazione dei piani, di strumenti non solo positivi, e cioè liberatori e suscitatori di iniziative pubbliche e private, ma anche contemporaneamente di quelli negativi, e cioè di vincolo, temporaneo o permanente, sulla edificabilità di talune aree. Senza, infatti, il doppio pedale dell'accelerazione e del freno, senza l'uso congiunto del si e del no, senza la delimitazione delle aree da urbanizzare con priorità e delle aree a temporanea sospensiva d'uso, è impossibile porre in moto una macchina veramente efficiente. [4][...]"

Risulta necessario sottolineare quindi la necessità di applicare i principi di precauzione e prevenzione all'interno degli strumenti di pianificazione: il vincolo da solo non è pero sufficiente (basti vedere le edificazioni in Italia che violano i vincoli paesaggistici-ambientali...) se poi non c'è controllo sul suo rispetto.

Va introdotta una procedura obbligatoria che si ponga parallela allo strumento di Piano, da cui dipende la determinazione dei luoghi da destinare ad edificazione, ma che non si fermi ad una mera perimetrazione delle zone a vincolo.

Alla luce di ciò si porta l'esempio del cosiddetto "vulnerability assessment" (valutazione della vulnerabilità) ai cambiamenti climatici globali prendendo come riferimento la definizione di vulnerabilità dell'IPCC basata sui tre concetti di: exposure, sensitivity e adaptation capacity. Si tratta di uno strumento che permette di valutare a 360° la vulnerabilità dei territori a fenomeni di rischio, non solo in termini di vulnerabilità fisica del territorio, ma anche e soprattutto in termini di capacità di adattamento (prevenzione-risposta-capacità di recupero post-evento) delle realtà locali ai suddetti fenomeni.

In "Assessing vulnerabilities to the effects of global change: an eight steps approach", articolo scientifico pubblicato su SpringerLink, (Dagmar Schröter, Colin Polsky e Anthony G. Patt), si affronta la questione della necessità di un approccio metodologico comune e condiviso nella applicazione dello strumento del "vulnerability assessment"; questo non solo nell'ottica di standardizzare questo strumento e poterlo applicare con metodo  e rigore in differenti contesti territoriali, ma anche per rendere possibile un confronto tra i vari studi secondo criteri di valutazione condivisi.

Nonostante il "vulnerability assessment" in senso stretto si presenti in modo ancora sperimentale (non c'è ancora appunto una metodologia condivisa e standard in tutti i suoi steps) rimane comunque preferibile in quanto ingloba la classica valutazione del rischio, e pone in aggiunta l'attenzione sulla capacità adattativa del territorio/popolazione in risposta all'esposizione al rischio, permettendo di potenziare le azioni di prevenzione-risposta-capacità di recupero post evento nelle realtà locali.

Resta ad ogni modo un'indubbia priorità cominciare ad integrare gli impatti dei cambiamenti climatici (previsti/attuali) all'interno delle valutazioni del rischio idrogeologico, sia essa una valutazione del rischio in senso stretto o un "vulnerability assessment" (IPCC).

 


[1] PROTEZIONE CIVILE http://www.protezionecivile.it/minisite/index.php?dir_pk=251&cms_pk=1435

[2]ISPRA:  http://www.apat.gov.it/site/it-IT/Temi/Suolo_e_Territorio/Rischio_idrogeologico/

[3]La frana che sconvolse l´Italia: http://www.larchitetto.archiworld.it/stampa06/stampa/rep140706.pdf

[4] Dopo il 19 luglio; Data di pubblicazione: 19.07.2006; Autore: Astengo, Giovanni: http://www.eddyburg.it/article/archive/244/

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