[12/10/2009] News toscana

Le potenzialitą del lavoro in Toscana

FIRENZE. Il lavoro in Toscana non è mai stato rispondente (o almeno non del tutto) al modello fordista eterodiretto della grande fabbrica secondo rigidi criteri gerarchici. Negli anni sessanta e settanta, nei distretti industriali, nelle p.m.i e nelle aziende artigiane era sottile il confine tra datore di lavoro e lavoratore dipendente entrambi riferibili a caratteri di mestiere e di professionalità marcate e originali, molto spesso.

Nel complesso si è potuto parlare per decenni, in Toscana, di un modello sociale e produttivo dove le capacità di imparare/trasmettere tagliavano orizzontalmente lavori e mestieri molto diversi, dall'artigiano all'operaio, dall'insegnante al ricercatore, al curatore di beni culturali, artistici e ambientali.

Ma ora la nuova trasformazione che sta travolgendo il nostro mondo del lavoro locale ci consegna lavori profondamente mutati, non solo flessibili ma intercambiabili banalmente per funzioni sempre più impoverite.

Eppure ci sono segnali di segno completamente opposto che sono di grande interesse perché in grado di dare essi il senso a una ricomposizione su nuove basi del mondo del lavoro. Sono segnali ben visibili in Toscana e in attività le più diverse: dalla ricerca scientifica al lavoro agricolo, alle aziende farmaceutiche avanzate, alla elettromeccanica di alta precisione, a molti servizi alle imprese, alla moda, all'informazione culturale.

Il primo e il più facile a vedersi è la collaborazione o lavoro di gruppo dove l'aspetto principale è l'interazione tra competenze che rigetta le rigide gerarchie e formule organizzative. Le tecnologie favoriscono questa modalità che fa perno su una visione e una responsabilità collettiva.

Il secondo è il superamento di tecniche produttive che imponevano lavoro eterodiretto non solo come forma organizzativa ma anche come assetto economico-sociale. Cambiata l'economia e il modo di produrre stride in modo evidente la dipendenza sociale ed economica tra capitale e lavoro o per dirla in altro modo è palese il contrasto tra appropriazione della conoscenza per obiettivi mercantili e il suo sviluppo come conoscenza sociale, che mal sopporta la moltiplicazione di figure precarie e sottotutelate.

Il terzo è che il sapere, diventato ormai la principale forza produttiva, non è riducibile ad una prestazione di lavoro misurata in ore e la sua trasformazione in capitale monetario, in puro valore di scambio, si scontra sempre di più con i bisogni e i disegni personali ad un lavoro soddisfacente e consapevole in cui proprio tramite il sapere ritorna ad essere rilevante il valore d'uso, la sua qualità e durata, anche ambientale.

Il quarto è che il sapere non abbandona chi lo possiede nel momento in cui "lo scambia" con un salario, ma proprio in virtù di questa caratteristica più si diffonde per via di mercato e più ricca diventa la società, più cresce il suo valore sociale che contrasta con un "contratto" di lavoro comunque subordinato ormai obsoleto.

Il quinto ed ultimo riguarda un aspetto che troverebbe terreno molto fertile in Toscana, per ragioni storiche e sociali e che potrebbe dare nuovo respiro e prospettive al lavoro e alla solidarietà sociale: è quello che Giorgio Ruffolo chiama l'economia della reciprocità per produzione di beni (come la conoscenza, le informazioni) non esclusivi utilizzabili contemporaneamente da più utenti e che non si separano dai loro produttori. Così particolarmente adatta per la Toscana sarebbe la diffusione di una vasta classe di lavoratori-imprenditori di se stessi in cooperazione con altri, non costretti nei ristretti ambiti del valore di scambio, ma autovalorizzantisi nel campo della libera creatività del lavoro. Costringerebbero tutte le forme di rappresentanza sociale a ridefinirsi. Finalmente.

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