[09/10/2009] News

Essere o non essere? Copenhagen (e Kyoto) dopo lo scontro di Bangkok

LIVORNO. Le due settimane dei Climate change talks che si chiudono oggi a Bangkok, si sono svolte in un crescente clima di frustrazione tra le delegazioni dei Paesi in via di sviluppo e tra le Ong ambientaliste ed umanitarie, alla fine l'unica cosa su cui la maggioranza concorda è che gli Usa abbiano tentato di "uccidere" il Protocollo di Kyoto, che già non se la passava molto bene.

Nonostante tutto questo, alla vigilia della conclusione del summit thailandese, il capo dell'Unfccc, Yvo de Boer, si è detto soddisfatto almeno su un punto: i passi avanti sul problema dell'adattamento al cambiamento climatico. Ma ha anche dovuto ammettere: «Aspettiamo ancora degli annunci ambiziosi da parte dei Paesi sviluppati riguardanti gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. La sessione ha fatto dei veri progressi per mettere in a campo l'architettura necessaria per fare a Copenhagen un accordo efficace sul campo». Anche de Boer sembra quindi ormai convinto che il trattato che verrà approvato a dicembre nella capitale danese dovrà rimpiazzare quello di Kyoto con nuove restrizioni delle emissioni, mentre il G77, la Cina e le altre potenze emergenti chiedono se non il suo mantenimento almeno una fortissima continuità che confermi gli impegni diversificati tra ricchi e poveri.

Per de Boer «I Paesi in via  di sviluppo sono stati molto costruttivi nei progressi per l'adattamento, la tecnologia, il rafforzamento delle capacità e la riduzione delle emissioni provenienti dalla deforestazione. Adesso, occorre avanzare sulle questioni politiche chiave, soprattutto i Paesi sviluppati devono annunciare degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra ambiziosi e fornire un finanziamento significativo per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad accrescere i loro sforzi. Senza leadership su queste due  questioni da parte dei dirigenti politici il lavoro dei negoziatori sarà molto difficile».

Per de Boer «E' molto difficile per i negoziatori continuare il loro lavoro a meno che non ci sia una forte volontà da parte di Paesi industrializzati per raggiungere gli obiettivi di emissioni. Non buttare via le scarpe vecchie prima di averne delle nuove - ha detto riferendosi al Protocollo di Kyoto - Per ora si può solo crede sulla buona fede (dei delegati, ndr). La dura realtà è che non ci sono stati analoghi progressi in materia di fissazione (di quote di gas serra, ndr)  da parte delle nazioni in via di sviluppo, sulla mancanza di obiettivi di riduzione delle emissioni e sulla la mancanza di chiarezza sul sostegno finanziario, che è fondamentale per i paesi in via di sviluppo sia per adattarsi e mitigare il riscaldamento globale. Le nazioni più povere sono state coinvolte in maniera molto costruttiva nel corso delle ultime due settimane per mettere davvero carne sullo scheletro di un risultato concordato a Copenaghen, per migliorare e far progredire il Protocollo di Kyoto. Tuttavia, non abbiamo assistendo ad un avanzamento delle questioni politiche chiave. Questo rende difficile il proseguimento dei negoziati».

Infatti, Bangkok lascia in eredità ai prossimi climate talks di Barcellona una situazione che, a meno di colpi di scena finali, si è ulteriormente ingarbugliata: l'unica leadership visibile è stata quella della Cina, molto attiva nella difesa di un Protocollo di Kyoto che praticamente le lascia le mani libere, dall'altra parte la delegazione  Usa mandata a Bangkok da Obama ha finito per somigliare molto, almeno nei metodi, se non nella sostanza, a quelle di Bush, svolgendo un ruolo di retroguardia e difensivo, in attesa che il Senato americano esca fuori dalla sua interminabile strada verso un compromesso sulla legge sul clima Usa che si annuncia non certo esaltante.

Una cosa è certa, la luna di miele tra Obama e gli ambientalisti sembra proprio finita: le Ong ambientali ieri manifestavano a Bangkok sotto lo slogan "US a real bad guy" e chiedevano agli americani di finirla con il sabotaggio del Protocollo di Kyoto.

Kingkorn Narindharakul, del Thai working group for Climate Justice ha ditto al Bangkok Post: «It's ok, se  gli Usa vogliono impegnarsi in un'azione interna, ma è inaccettabile che tentino di far deragliare I negoziati sul clima» ed ha invitato «Il Gruppo dei 77 più Cina, l'alleanza dei paesi in via di sviluppo, a rilasciare una dichiarazione per condannare il tentativo di porre fine al protocollo di Kyoto».

Secondo Martin Khor, direttore esecutivo del South Centre Centro Sud, alleato del G77 + Cina, «Gli Stati Uniti dovrebbero compiere sforzi paragonabili per ridurre le emissioni di gas serra», e per salvare il Protocollo di Kyoto propone un accordo speciale giuridicamente vincolante per gli Usa.

Per Alfred Wills, coordinatore del G77 + Cina per Protocollo di Kyoto, «I paesi industrializzati devono assumere la leadership per gli impegni del protocollo. La nostra preoccupazione principale è che i ricchi vogliano evitare di prendere ambiziosi obiettivi sui gas serra per il secondo periodo di impegno dell'accordo di Kyoto». 

L'Unione europea è nuovamente tra due fuochi e probabilmente a Copenhagen dovrà svolgere quel ruolo di mediatore-trascinatore al quale prima ambiva e che ti tutto di un tratto è diventato una difficile operazione di equilibrismo. La Commissione europea intanto dice una cosa di buon senso ma che rischia di venire soffocata dalle urla dei contendenti: il Protocollo di Kyoto è in sofferenza non solo per colpa degli Usa ma anche perché i grandi Paesi emergenti non vogliono prendersi nessun impegno vincolante.
Il direttore generale per l'ambiente della Commissione europea, Karl Falkenberg, è stato esplicito: «Il Protocollo di Kyoto ha fallito, non abbiamo visto molti Paesi fare passi avanti, come si dice. Abbiamo bisogno di vedere il governo degli Stati Uniti assumere uno sforzo paragonabile e che altri paesi industrializzati come il Giappone e l'Australia si impegnino. Ma abbiamo bisogno anche che altri grandi Paesi in via di sviluppo, come l'India e la Cina, non credano che basti andare avanti con il "business as usual". La sfida è là fuori e noi pensiamo che richieda un nuovo quadro giuridico».

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