[06/10/2009] News

Clima caldo a Bangkok...

LIVORNO. Secondo quanto scrive oggi il Bangkok Post, «Ci si aspetta che il dibattito tra i negoziatori sul futuro del Protocollo di Kyoto diventi caldo nei giorni di chiusura dei Bangkok talks, in cerca di un'elusiva soluzione per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici più pericolosi».
Infatti, dopo un avvio soft e nonostante le speranze del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon e del capo dell'Unfcc Ivo de Boer, la lotta sulla revisione (e riduzione a 35) delle 180 pagine della bozza di testo negoziale, nella capitale thailandese sta crescendo la discordia e il sospetto che qualcuno punti allo smantellamento dell'intero meccanismo di Kyoto. Il capo dell'Unfccc, lo stesso de Boer, ha dovuto ammettere all'Associated Press che «La settimana scorsa c'è stata una frustrazione crescente tra i Paesi in via di sviluppo che si sono offerti di agire per ridurre le proprie emissioni, ma non stanno vedendo analoghi impegni assunti dai Paesi ricchi».
Diversi Paesi ricchi e industrializzati, compresi gli Usa, che non hanno ancora firmato il Protocollo di Kyoto, nel 2012 vorrebbero sostituirlo con un accordo nuovo di zecca. Ma 130 Paesi in via di sviluppo, guidati dal Gruppo dei 77 + Cina, chiedono il mantenimento del Protocollo con varianti rafforzative.
Inoltre gli Usa stanno lavorando alacremente per convincere i delegati ai Bangkok Climate change talks ad accettare un new market mechanism on carbon trading, una proposta che a molti Paesi non piace per nulla.
Contro le pressioni statunitensi é sceso in campo direttamente il capo dei negoziatori cinesi, Yu Qingtai: «E' proprio come se negli ultimi 5 minuti finali di una partita una squadra volesse introdurre una serie di nuove regole e si aspetta che l'altra parte lo accetti. Questo non è un modo corretto di condurre negoziati. Siamo di fronte ad una sfida da parte dei Paesi dell'Annex I (i 37 Paesi industrializzati con obblighi di tagli totali del 5,2% dei gas serra entro il 2012 rispetto al 1990, *ndr*), le cui dichiarazioni ai Bangkok talks suggeriscono l'uccisione del Protocollo di Kyoto e di tutto quello che rappresenta. Abbiamo osservato uno sforzo per abbandonare il Protocollo, il che è un segnale molto preoccupante. A mio parere, la ragione fondamentale per la mancanza di progressi è la mancanza di volontà politica da parte dei paesi dell'Annex I. Siamo pronti a intraprendere azioni concrete per dar seguito alle nostre parole? Siamo seri riguardo a i nostri impegni? Questa è la domanda che tutti dobbiamo porci due mesi prima di Copenaghen».
La rabbia dei Paesi in via di sviluppo è aumentata dopo che Carol Browner, l'energy adviser di Barak Obama, ha detto che, con tutta probabilità. Il Senato Usa non sarà in grado di approvare la legge sul global warming prima del summit di Copenhagen, limitando così seriamente le possibilità del presidente statunitense di prendere impegni reali in occasione del vertice mondiale sul cambiamento climatico.
Se G77 e Cinesi puntano il dito accusatore soprattutto sugli Usa, a Bangkok in realtà sembra si sia ricostituito il trio Australia - Giappone - Stati Uniti che hanno fatto insieme una serie di proposte che indebolirebbero i già non draconiani limiti del Protocollo di Kyoto, non prevedendo tagli vincolanti di emissioni a livello internazionale. E lasciando ai singoli governi la responsabilità di rispettare gli impegni presi, ma chiedendo ai Paesi in via di sviluppo di assumersi obblighi simili a quelli dei "ricchi".

Salta così la formula della "responsabilità comune ma differenziata" tanto cara ai cinesi, che prevedeva vincoli precisi per i Paesi ricchi in quanto responsabili (anche storicamente) della maggior parte delle emissioni di gas serra.
Tra i Paesi sviluppati solo l'Unione europea sembra ancora difendere il Protocollo di Kyoto: «Vogliamo un unico strumento giuridico, che dovrebbe includere il contenuto del Protocollo di Kyoto - ha detto Anders Turesson, capo-negoziatore della Svezia e dell'Ue in quanto rappresentate della presidenza di turno europea - I negoziatori stanno facendo progressi per tagliare il testo negoziale del nuovo trattato climatico che dovrebbe essere chiuso a Copenhagen a dicembre. Però questo non è al centro dei negoziati. Abbiamo bisogno di una discussione più sostanziale sulla questione definitiva: chi deve fare cosa e chi paga per questo». Ma Turesson ha dovuto ammettere che nella prima settimana il ritmo di colloqui è stato "insufficiente", ma ha rifiutato di incolpare un solo Paese (gli Usa.
Mentre dentro le sale dei climate cange talks si litiga, fuori più di 1.500 attivisti ambientali delle comunità locali asiatiche manifestano per chiedere "climate justice now". Kingkorn Narindharakul Na Ayudhaya, dell'Asian people's solidarity for climate change, ha spiegato ai giornalisti: «I popoli asiatici hanno sopportato la violenza degli effetti derivanti dal cambiamento climatico, per i quali sono da biasimare i paesi sviluppati. Ora, le nostre voci devono essere prese in considerazione nei climate talks ».
L'ambasciatore del Sudan Lumumba D'aping, presidente del gruppo del G77 + Cina, ha detto ai manifestanti che «I Paesi in via di sviluppo devono unirsi per premere sui Paesi ricchi che vivono al di sopra delle loro responsabilità ed ha sollecitato i membri dell'Unfccc a fare del summit di Copenaghen «Una conferenza responsabile e giusta».
La situazione l'ha riassunta bene Kaisa Kosonen di Greenpeace alla Canadian Press: «I disaccordi sul quadro generale probabilmente si perderanno per strada se i Paesi sviluppati si impegneranno per i target e ad offrire decine di miliardi di dollari di finanziamenti alle nazioni povere. E' difficile che si facciano progressi su questo tema prima che si facciano progressi su finanziamenti ed obiettivi».

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