[05/10/2009] News toscana

Aree dismesse e governo del territorio: il punto con l'urbanista Massimo Sargolini

FIRENZE. «Occorrerebbe oggi una rivoluzione copernicana nella progettazione a scala urbana. E provare a partire quindi proprio dal "disegno dei vuoti", di quegli spazi di libertà, di respiro che ci fanno "percepire" l'abitabilità e quindi la qualità profonda di un luogo»: questa parte dell'intervento che il direttore di Legambiente Toscana, Fausto Ferruzza, ha tenuto su greenreport il 30 settembre scorso, evidenzia la necessità di un mutamento radicale di prospettiva, nella progettazione per la riqualificazione delle aree dismesse e in generale dello sviluppo delle aree urbane.

Il punto, naturalmente, è come agire per poter attuare concretamente questa nuova prospettiva, puntando alla sostenibilità sociale e ambientale ma contemporaneamente tenendo presenti anche le esigenze occupazionali (e le relative pressioni politiche) legate allo sviluppo del comparto edile.

Abbiamo sentito il parere sulla questione di Massimo Sargolini (nella foto), membro della commissione nazionale Ambiente dell'Inu e associato di Urbanistica presso la facoltà di Architettura di Ascoli Piceno (università di Camerino). Sargolini, insieme al dipartimento di Progettazione e costruzione dell'ambiente della stessa facoltà, sta attualmente svolgendo ricerche sulla sistemazione delle aree dismesse con particolare focus sul versante adriatico.

Professor Sargolini, a Firenze è ripartito il dibattito sulla risistemazione delle aree dismesse. Quali le prospettive generali?

«Guardi, almeno in riferimento al versante adriatico dove stiamo lavorando attualmente col dipartimento e insieme ad altri centri di ricerca, posso dire che le aree dismesse stanno assumendo un ruolo rilevante nell'organizzazione del territorio. Il tema può essere affrontato con riferimento al "Manifesto del terzo paesaggio", opera di Gilles Clement , dove l'autore evidenzia il ruolo che possono svolgere le aree marginali, residue, in un certo senso "perdenti" perchè rivestono un significato di secondo piano.

Queste aree possono essere investite di un nuovo ruolo, interno alla riorganizzazione di equilibri ecologici e territoriali. Si tratta, è noto, di luoghi marginali rispetto alla continuità edificatoria, spazi che vengono definiti "in attesa di...", oppure aree ex-industriali o ex-produttive: penso, per la Toscana, alla Versilia (dove ci sono molte aree ex di cava) o anche a varie zone della regione dove sono presenti serre molto estese, che in certi casi rimangono dopo l'abbandono di una attività agricola.

E poi ci sono quei casi di aree ex-agricole che hanno resistito, nel tempo, all'urbanizzazione, che le ha "inglobate" nelle città, ed è questa una situazione (definita di "archeologia rurale in ambiti urbanizzati") molto frequente. Tutte queste tipologie di aree dismesse vanno ripensate in un'organizzazione complessiva, ed è proprio questa la "battaglia" che stiamo portando avanti col gruppo di ricerca.

In generale, quando ci troviamo di fronte a queste aree, specie se urbane, occorre capire se esse hanno un ruolo, magari anche un ruolo ecologico. E magari qui qualcuno potrà scandalizzarsi e chiedere stupito "ma come, aree urbane possono avere un ruolo ecologico?", ma invece esistono dei casi anche a Firenze (penso al ruolo del torrente Mugnone o ad altri spazi analoghi) dove si hanno delle staffe di penetrazione ecologica, il cui valore naturalmente va capito caso per caso. Certo, non stiamo parlando di "Wilderness in città", ma comunque sussistono prospettive per la ricostruzione di spazi di significato ecologico anche all'interno di ambiti che sembrano definitivamente compromessi.

Ora, devo dire che considero la posizione di Clement quasi come una provocazione, per certi versi, e me ne tengo ad una certa distanza: ma ciò non diminuisce il valore che alcune staffe di penetrazione "verde" mantengono per la città. Ciò vale specialmente se poi queste aree si relazionano ad altri spazi esterni significativi: e in questo senso le foci dei fiumi sono molto importanti.

La cosa vale sia per l'Adriatico, sia per la Versilia come detto sopra: nel dibattito tra gli addetti ai lavori lo scontro è molto acceso sulla prospettiva di incanalare i fiumi fino alla foce, o se è possibile invece recuperare i loro spazi. Anche perchè, come dimostrano gli eventi di questi giorni, poi avvengono le tragedie e lo Stato deve intervenire: ma il vizio è di fondo, come ha affermato anche il presidente Napolitano, e la società civile, se non altro per una questione economica, dovrebbe pensarci un attimo prima, a come tutelare il territorio. Basta pensare, a questo proposito, all'eliminazione delle curve e dei meandri dei fiumi, che viene fatta a favore di percorsi canalizzati rettilinei. E' questa, infatti, la tipica operazione che viene fatta su un corso d'acqua in prossimità delle aree urbanizzate, magari per recuperare spazio per costruire fino ai bordi del fiume: ma così esso diventa un canale, perde di senso, di valore ecologico, e inoltre l'accelerazione causata dall'aumento di energia cinetica (dato dalla riduzione della sezione disponibile) provoca danni a valle. E così il cerchio si chiude.

Va tenuto presente anche che queste aree residue potrebbero assumere un ruolo importante nella strategia generale della città: nella "città diffusa" che è presente su gran parte delle coste adriatiche, in cui tutta l'edificazione è avvenuta esclusivamente "per addizione", mancano delle reali centralità, cioè dei punti di riferimento, dei "gangli" delle città. E queste centralità potrebbero essere rappresentate proprio dalle aree residue riqualificate, mentre invece queste per alcuni non valgono nulla, per altri destano invece appetiti edificatori.

Quindi il punto è ribaltare questa mentalità, mentre (almeno qui sull'Adriatico) c'è stata diffusione urbana senza un progetto di fondo: e il cambiamento che necessita vale soprattutto per le ex-aree industriali: serve quindi una riflessione, io dico "pensiamoci" e non continuiamo a ragionare solo per addizione».

A questo proposito, è evidente che il suo interessante ragionamento è più agevole da applicare in aree suburbane. Come agire invece riguardo ad aree ormai impossibili da riconnettere con il tessuto ecologico? Per riferirci alla situazione fiorentina, è il caso dell'ex-Meccanotessile di Rifredi, completamente circondato dal tessuto urbano in tutte le direzioni e dove sarebbe illusorio puntare ad una connessione ecologica col tessuto circostante, per il semplice fatto che questo tessuto è "troppo lontano", ormai.

«Anzitutto devo chiarire che non ci sono ricette universali. E' molto difficile, cioè, dire manualisticamente cosa fare in un luogo, senza vederlo. Su questo occorre cautela, cioè. Ma, detto questo e citati i riferimenti all'opera di Clement (che, ripeto, non condivido del tutto), va detto anche che occorre vedere se un sito, pur non essendo legato al tessuto ecologico circostante, può però magari rappresentare ciò che si può definire come uno "stepping stone", usando una terminologia tipica del progetto "Natura 2000" (uno stepping stone è una parte di un corridoio ecologico "staccata" dal tessuto uniforme, ma che rappresenta un imprescindibile punto di transito da un punto del tessuto ad un altro: la cosa è più comprensibile pensando all'avifauna, nda). Ma questo non sempre avviene, serve una verifica e, di questa "verifica", Clement si disinteressa completamente.

A questo proposito le riporto un esempio più complesso: in Germania (a Duisburg, se non ricordo male) è in corso un intervento di recupero di ex-aree industriali: e si tratta di aree, analogamente al Meccanotessile di Firenze da lei citato, che è impensabile possano rientrare nel tessuto ecologico: in questi casi esse possono essere usate proprio per il recupero di quella "centralità" citata, puntando a creare aree fatte di verde, ma non solo.

Anche ad Ascoli Piceno, ai margini del centro storico, c'era una vecchia fabbrica di materiali per la combustione, anche piuttosto inquinante peraltro. In passato era un'area ai margini del tessuto urbano, mentre poi è diventata una "isola chiusa" all'interno della città: e stiamo attualmente facendo una riflessione, su quest'area: certo, non potremo connetterla col parco dei monti Sibillini, ma comunque stiamo pensando alla possibilità di realizzarvi un polo tecnologico circondato da un parco. E' il parco, cioè, che diventerebbe quella "nuova centralità" di cui abbiamo parlato: e il bello è che il tema è diventato centrale nel dibattito locale, e lo dimostra il fatto che entrambi i candidati alle comunali del giugno scorso, sia di centrodestra (poi vincente col 50,74%, nda) sia di centrosinistra, avevano considerato il tema della riqualificazione dell'area in questione come elemento centrale del programma.

Peraltro, nel progetto sono presenti anche spazi residenziali, ma soprattutto questo luogo diventerà un luogo di identificazione collettiva: è evidente, invece, che se si continuava con la strada tracciata finora, esso sarebbe stato tutto completamente edificato».

E' evidente, comunque, che l'attrattività per il mercato edile (e quindi per le prospettive occupazionali) di un intervento di sola edificazione è maggiore rispetto a qualsiasi altro tipo di intervento possibile per un'area dismessa. Quindi, anche se è ovvio che tocca alle amministrazioni locali fare scelte più coraggiose di quelle che in questi casi vengono tipicamente attuate, occorre capire come facilitare l'opera di queste amministrazioni, cioè come agire per fare sì che queste tipologie di interventi garantiscano un'attrattività se non analoga alla speculazione "pura", comunque il più possibile vicina ad essa in termini di potenziale indotto sul mercato del lavoro.

«Guardi, siamo appena tornati da un viaggio in Albania, dove abbiamo discusso di alcuni progetti architettonici. E, quando incontravo i rappresentanti locali, la domanda che veniva fatta era analoga a quella che lei mi pone. E' evidente che in quel paese la diffusa povertà spinge a sottolineare proprio la richiesta di occupazione, in campo edilizio. Ma lì immaginano che tutto passi per l'edilizia: e, pur non volendo assumere posizioni da "ambientalista estremo", io credo che l'errore sia proprio pensare che si possa risollevare l'economia con l'edilizia.

Ora, la ricostruzione dell'Italia nel dopoguerra si è basata proprio sull'edilizia, ma è ormai cosa passata. Pensiamo all'Aquila: se puntiamo alla creazione di un nuovo villaggio immediatamente preoccupandoci di dare lavoro il prima possibile, e non puntiamo invece ad un restauro dei quartieri storici danneggiati (che magari non ha la stessa "spinta immediata" per il mercato del lavoro ma che punta ad una prospettiva duratura), allora semplifichiamo troppo la questione.

Se io invece immagino, per l'Aquila, una ricostruzione attenta all'identità dei luoghi, sicuramente non avrò lo stesso indotto immediato, ma lo varò a lunga scadenza, specialmente se sono compiute scelte politiche che sostengano la "cultura del bello". E per di più avrò attuato un intervento che accresca il valore dei luoghi, cosa che una semplice lottizzazione non crea.

Per queste cose servono amministratori avveduti: questo perchè i vantaggi ci sono eccome, ma probabilmente questi vantaggi non andranno a regime entro i termini del mandato politico dell'amministratore in questione, e qui sta il problema e, appunto, qui sta la necessità di amministratori avveduti. Sempre riferendoci all'Aquila, è da attendersi che da qui a 2 anni l'ottica sia quella della creazione di una "nuova città" (e così avverrà a Messina per i paesi travolti, probabilmente), e questo magari è necessario nell'immediato, ma il vero investimento da fare non è quello fatto solo di nuove case, ma che interviene sul dissesto del territorio. Ed è evidente che un intervento di questo tipo darà risultati solo tra 30 anni, magari, ma le due cose vanno fatte e pensate contemporaneamente: occorre pensare, cioè, sia al breve termine sia al lungo termine, mentre di solito alla domanda occupazionale si danno risposte solo a breve termine, senza pensare a darne di lungo termine: e quindi si dà risposte sbagliate».

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